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Gallipoli – Beirut

cover-gallipoli-mdNon ci si aspetterebbe un disco del genere da un musicista nato a Santa Fe, Nex Mexico, nel 1986. Uno che ha scelto come ragione sociale della band di cui è il leader indiscusso il nome di una città lontanissima, che ha visitato per la prima volta solo nel 2014. Eppure, Zach Condon, giunge con Gallipoli al quinto album in 13 anni di attività dei suoi Beirut. Percorrendo sentieri paralleli a quelli dei conterranei A hawk and a hacksaw, Condon approda nel cuore del Mediterraneo con le lente cadenze di When I Die,  incantato da un repertorio di suoni e atmosfere che rendono felicemente unitario l’album. Nella title-track, Gallipoli, gli ottoni di una banda di paese salentina richiamano i presenti all’inizio di una festa poco prima del tramonto, sfondo di un epico dramma personale, che rivive come in uno sbiadito ricordo nella voce calda di Zach, al ritmo di una scarna batteria da pizzica. Sonorità che ritorna, spogliata della sua sfrenata velocità, anche ne I Giardini, abbinata al basso vibrato di una ballata malinconica affine a Varieties of Exile, in cui il gusto esotico di un ukulele regge la solennità di un coro balcanico. La ricerca sui suoni si proietta altrove nello splendido arpeggio di On Mainau Island, un bozzetto di riverberi, distorsioni e suoni vintage volutamente imprecisi e sbavati, oppure, all’opposto, nell’armonia vocale di Gauze für Zah, che sembra ricalcare il ritornello di Carpet crawlers dei Genesis con il timbro tribale dell’Africa sud sahariana, prima di dissolversi in una coda stratificata di rarefazione cosmica kraut. Gli echi beat martellanti di un tessuto caraibico conducono al secondo strumentale, Corfù, che rilegge la Grecia da distanze dissonanti, mentre Landslide riporta gli spazi aperti, che caratterizzano tutto il disco, ad altre latitudini, serbando il ricordo di un viaggio formativo al ritorno a casa, e lì affrontare con diversa consapevolezza le Family Curse che ci affliggono, superandole con lo slancio di tastiere  sfilacciate quanto brillanti e maestose, nell’incedere di un rullante marziale. In Light in the Atoll variopinte brass section dall’est sembrano fondersi con eleganti orchestre jazz, mentre disegnano su morbidi ritmi cubani il preludio della mielosa colonna sonora di una storia d’amore finita male. E sono proprio i fiati, più ancora delle numerose tastiere vintage, a dare il colore più carico all’album, così dal cerchio dei sintetizzatori roteanti di We Never Lived Here emerge il suono di fiati tristi e scoppiettanti come antichi pagliacci che accompagnano il lento cammino della voce baritonale di Condon, fino all’ultimo vocalizzo malinconico nell’uscita di scena che chiude con Fin la valigia dei ricordi mediterranei al suono di una pacifica tastiera anni ’80.

 

Credits

Label: 4AD – 2019

Line-up: Zach Condon (vocals, backing vocals, piano, Rhodes piano, Farfisa organ, Hammond organ, pump organ, ukulele, trumpet, accordion, percussion, synth, Moog Voyager synthesizer, modular synthesizer, bells, Roland keyboard, ROLI Seaboard keyboard, shaker, drum machine, vocal recording, production, mixing) – Nick Petree (drums, percussion, baritone ukulele, backing vocals, hand drums) – Paul Collins (bass, guitar, Farfisa organ, double bass, backing vocals, tape machine, drum machine, modular synthesizer, baritone guitar, percussion, synthesizer, space echo) – Ben Lanz (trombone, brass arrangement) – Kyle Resnick (trumpet)

 

Tracklist:

  1. When I die
  2. Gallipoli
  3. Varieties of exile
  4. I Giardini
  5. Gauze für Zah
  6. Corfu
  7. Landslide
  8. Family Curse
  9. Light in the Atoll
  10. We Never Lived Here
  11. Fin


Link: Sito Ufficiale Facebook

 

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