Ci sono immagini che raccontano intere storie a chi sa osservare con attenzione, meditando sui dettagli senza perdere di vista l’insieme che li racchiude. Così come ben Sette opere di misericordia sono contenute nello stretto vicolo della Napoli del 1606, dipinto su tela da Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, omicida fuggiasco che trova rifugio qui, eseguendo questo che è il suo primo capolavoro partenopeo per l’altare maggiore della chiesa del Pio Monte della Misericordia, sul decumano maggiore. Un lombardo a Napoli (parafrasando a rovescio un noto film di De Filippo), e forse il lombardo che ha maggiormente influenzato la cultura napoletana, malgrado la brevità del suo doppio soggiorno in città. Probabilmente perché Napoli si prestava, meglio di altri contesti coevi, alla messa in scena dello straordinario luminismo naturalista che costituisce l’arma vincente con la quale l’artista ha rivoluzionato la pittura. La carità romana, il gesto di pietà della giovane donna che attraverso le sbarre nutre al proprio seno il padre imprigionato, scena solitamente isolata e furtiva, avviene qui nel mezzo di un vicolo affollato giacché nulla può essere segreto in questa città e le vite del popolo trascorrono per strada in un rito quotidiano di condivisione, solidarietà e speranza che costituisce la vera forza di Napoli e tocca con grazia l’eccezionale tela di Caravaggio. Quale luogo migliore per un concerto di Alessio Sollo e Claudio Gnut Domestico? Il duo, che ha inaugurato il 2019 con l’ottimo libro/disco L’orso ‘nnammurato, si presenta nella storica chiesa su di una bassa pedana innanzi alla transenna marmorea del presbiterio, con alle spalle una band al completo di quattro elementi. Michele Signore col suo drammatico, maestoso violino e il suo limpido mandolino squillante, coi quali orienta spesso il timbro dei brani, come un saggio taciturno che sorride sornione mentre osserva i compagni con sguardo paterno; Gianluca Capurro, solista misurato e discreto, colora senza sbavature gli spazi disegnati dagli arpeggi di Gnut, anche con un pizzico di ironia, come quando chiude un pezzo accennando Sweet child o’ mine dei Guns n’ Roses; Marco Caligiuri, in una veste decisamente distante da quella mostrata assieme a Sollo nei The Collettivo, si affida a un set minimale di percussioni, una tammorra posta in orizzontale come un rullante e poco altro, suonando per lo più con la punta delle dita, per ritmiche rarefatte e atmosferiche; Valerio Mola al contrabasso offre nuova dinamica ai brani con uno stile diretto, che risale ai tempi in cui gli Gnut erano un gruppo, brioso e pimpante al punto giusto (anche quando entra in anticipo in L’ammore ‘o vero, errore che ripete immediatamente trasformandolo con furbizia in un nuovo riff). Come si diceva, lo scatto ripreso durante il concerto dice già tutto sul ruolo dei protagonisti. Gnut resta seduto, sotto il cappello di cuoio (cimelio di un recente viaggio negli Stati Uniti?) piegato sulla sua fidata Ciaccarella, faccia schiacciata contro il microfono per non smarrire nell’aula il più tenue dei sussurri, gambe all’indietro impacciate di chi suona in pubblico ma per sé stesso, portando in scena una dimensione tutta interiore. Tanto intima da toccare con passione anche l’ascoltatore più distratto, attraverso una tecnica d’arpeggio fortemente influenzata dalle cadenze cicliche e ipnotiche della musica africana che si risolve in linee inusuali di armonica semplicità. E sarà qui il caso di ricordare la celebre frase attribuita a Caravaggio dal suo amico il marchese Giustiniani, secondo il quale il pittore avrebbe detto che “tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori, come di figure“. La qualità di un’opera e la statura di un artista non si misurano in base ai temi trattati, lo afferma Caravaggio, ma solo in base alla manifattura, la creatività, l’espressività che si riversa dalla sua anima in un manufatto, che sia una dipinto o una canzone. Sollo, lo si vede, nun se fir’ ‘e sta (non riesce a star fermo n.d a.), manifestando con divertente gestualità e assetto da guerra la sua indole punk che si riversa nella voce possente che lo costringe a tenere il microfono a mezzo metro dalle corde vocali. Ma siamo nel cuore della Napoli antica ed è proprio da qui che giunge viaggiando nel tempo e nello spazio la voce di Alessio. Contraltare perfetto al timbro più roco e placido di Gnut, col quale dialoga senza sovrapposizioni, sposandone appieno la visione musicale, come sottolinea in maniera divertente e divertita, quando introduce il solito ping-pong, che conclude il set con l’interpretazione botta e risposta di un brano l’uno dell’altro e che in definitiva si traduce sempre in una interpretazione ‘alla Gnut’. E sempre scherzando e con spontaneità si assumono anche posizioni molto serie, come quando Sollo confessa che prima del concerto avevano concordato, data la solennità del luogo, di indossare entrambi una giacca e lui ha indossato l’unica in suo possesso, quella dell’esercito montenegrino. Battuta divertente ma anche richiamo alla Giubba dipinta nel 1969 da Mathelda Balatresi, che riproduce con acido verde da pop art la divisa macchiata di sangue dell’arciduca Francesco Ferdinando, il cui omicidio diede avvio alla Prima Guerra mondiale. Portata sopra una maglia con la copertina di Abbey Road quella giubba di Sollo non può che essere una dichiarazione di pace. Merita infine una menzione speciale Simona Boo che raggiunge il gruppo per duettare con Gnut nella reinterpretazione di Annascuso dall’EP Hear my voice, con una grazia melodiosa che fa alzare lo sguardo ancora una volta verso la tela di Caravaggio, alla cui sommità la Madonna della Misericordia è una donna del popolo che si affaccia alla finestra illuminando il vicolo buio col suo calore materno.
Foto: © Alessio Cuccaro (Tutti i diritti sono riservati)