Dopo lo scioglimento degli Experience, che si esibiscono per l’ultima volta al Festival di Denver il 29 giugno del 1969, Hendrix sperimenta nuove possibilità e formazioni lungo tutto il corso dell’estate, dalle session allucinate nella residenza bucolica di Shokan (il bootleg che circola dal titolo Shokan Sunrise è una piccola e sconosciuta perla) fino alla performance stellare che chiude la tre giorni di Woodstock. Ma l’autunno americano arriva col suo rigore a infrangere certe ambizioni, che purtroppo non troveranno mai forma compiuta. Forse spinto dalla contestazione politica dei vari movimenti black, il chitarrista ritorna al trio, ma stavolta sceglie due musicisti di colore, Buddy Miles alla batteria e Bill Cox al basso che aveva già conosciuto all’epoca del servizio di leva. I rapporti di forza all’interno del trio sono poco diversi da quelli presenti negli Experience, ma differente è l’attitudine dei nuovi componenti. Il basso di Cox è decisamente solido e lineare, rifuggendo del tutto gli azzardi psichedelici di Redding, mentre il drumming di Miles è ben lontano dalle influenze jazz di Mitchell, preferendo uno stile più asciutto e diretto, funzionale alla dinamica funky che orienta la musica del trio. Ed è proprio il batterista ad imprimere una netta sterzata in tal senso grazie alle sue performance canore che aggiungono sensualità soul e grinta rhytm’n’blues al timbro meno versatile di Hendrix. I due cantano spesso affiancati, ma è quindi Buddy a ritagliarsi un ruolo da solista, che Jimi condivide per la prima volta in maniera tanto netta. In un paio di mesi il trio mette insieme un buon repertorio e riceve un prestigioso ingaggio allo storico Fillmore East, il teatro rock di Bill Graham a New York, per ben quattro concerti, tra la notte di San Silvestro del ’69 e il Capodanno ’70. Parte degli spettacoli confluiscono in Band of Gypsys che è il primo album solista di Hendrix e anche il suo primo live, pubblicato dalla Polydor negli Stati Uniti il 25 marzo del 1970. Sei tracce, sei nuovi brani, che viaggiano sulle ali di una tirata jam session funk rock. Che si dilatano all’insegna dell’improvvisazione come in We gotta live together, si infervorano nel dialogo serrato tra la Fender di Jimi e i vocalizzi ammiccanti di Miles, nella frenetica Message to love e nello shuffle andante di Who knows, mescolano il blues di Killing floor con le armonizzazioni del soul in Power to love, ritrovando anche la forma canzone nell’accorata e passionale Changes, scritta da Miles e introdotta da un gustoso stacco jazz, che coinvolge il pubblico in un crescendo ritmico trascinante. Ma il momento più alto dell’album e del trio resta la lunga protesta antimilitarista Machine gun, non a caso l’unica che Hendrix continuerà a suonare, in seguito, assieme ai ricostituiti Experience (con Cox al basso). Un blues marziale e straziante, degno di un figlio del voodoo, che atterisce il pubblico per oltre dodici minuti, sanguina copiosamente sotto i colpi di un mitra rullante, geme e urla un dolore universale, che parte naturalmente dal Viet Nam, ma riecheggia in tutte le infinite e atroci guerre combattute dall’uomo.
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