All’inizio del Lockdown arrivavano solo numeri. Tanti contagiati, tanti in fin di vita. Ma il mio dubbio alla giovane Holden era: cosa staranno provando quelle persone in quei letti di ospedale lontano dagli affetti, lontano dalla loro vita. Poi è venuta la fase in cui mi chiedevo come sarebbe stato vivere quel momento di quarantena, reclusi in una stanza di casa con l’attesa di un tampone negativo. A tutti questi interrogativi le risposte poetiche sono arrivate dalla pagina Facebook di una vecchia conoscenza di LostHighways: Gianluca Maria Sorace, deus ex-machina di magici progetti come Stella Burns e Hollowblue. Ancora una volta dalla musica indipendente ho ricevuto le risposte che cercavo. Ho scoperto dopo che quei post di Gianluca sono diventati un video per la campagna #IoRestoaCasa. Questa intervista l’ho fortemente voluta perchè sapevo che il racconto di Gianluca avrebbe cristallizzato i ricordi di questo maledetto periodo pandemico e sarebbero diventate un’altra bella pagina di LostHighways.
Un giorno all’improvviso scopri di essere positivo al Covid-19. Come reagisce un musicista? Come trasla la realtà per uscirne sopravvissuto?
In quei giorni le cose sono precipitate così velocemente che non ho avuto il tempo di elaborare quello che mi stava accadendo. Mi sono aggrappato al puro istinto di sopravvivenza e per molto tempo ho messo da parte chi fossi e cosa avessi fatto fino a quel momento.
Le priorità erano non avere dolori, riuscire a dormire, cercare di mangiare un po’…
Poi, una volta fuori dall’ospedale e passata la paura di non farcela, nei quaranta giorni che ho vissuto chiuso in una stanza a casa, è rifiorita piano piano la mia natura di musicista e ho sentito il gran bisogno di scrivere, di suonare e di comunicare.
Inizialmente attingendo inevitabilmente all’esperienza appena passata, poi piano piano, attraverso un processo di rimozione involontario, distaccandomene e facendola quasi diventare il racconto di un altro.
La tua esperienza con il virus è stata un lungo calvario. Quando eri in ospedale da solo, ti sei aggrappato ad una canzone nella mente che ti portasse sollievo?
In ospedale, a causa della febbre alta e degli antidolorifici costanti, ero spesso in uno stato piuttosto confusionale, preda talvolta di pensieri ossessivi.
In quei giorni, quando una cosa mi entrava in testa, anche casualmente, mi era poi difficile allontanarla. Un mio amico, pochi giorni dopo il mio ingresso in ospedale, mi mandò il link alla canzone solista di Francesco Bianconi, Il bene. Seguo i Baustelle dall’inizio, quando facevano i concerti alle feste dell’unità nelle province toscane. Alcuni dischi mi piacciono molto. Quella canzone in quel momento mi è stata di molto conforto. Adesso ho paura a riascoltarla.
In ospedale ho provato ad ascoltare anche l’album Foxtrot dei Genesis, essenzialmente il disco sul quale ho cominciato a cantare quando ero un bambino. Pensavo mi potesse rassicurare ma ho smesso dopo pochi minuti. Una parte di me temeva di inquinare i ricordi che ho della mia infanzia legati a quell’album.
Hai avuto un grande sostegno dal social network, ti aspettavi tutto questo?
Il giorno dopo essere stato ricoverato, ho pubblicato un paio di foto dalla mia camera d’ospedale. Ero da solo in una grande stanza, prima di essere trasferito nel reparto Covid. Gli infermieri e i medici entravano con mille precauzioni. Non solo stavo molto male ed ero senza energie, ma la situazione e l’isolamento erano surreali e per nulla tranquillizzanti.
Ricordo di aver postato quelle foto per comunicare ai miei amici quello che mi stava accadendo, non immaginando assolutamente che quel post avrebbe generato un’ondata di affetto enorme da parte di centinaia di persone. Persone che non conoscevo cominciarono a mandarmi messaggi di sostegno. Mi auguravano il buongiorno, la buonanotte, mi abbracciavano virtualmente dimostrando una grande apprensione per le mie sorti. Un’umanità bella e sincera che è stata vicina a me e alla mia compagna e che ci ha mandato continui pensieri di vicinanza. Allora non avevo la forza per rispondere ma da quel momento in poi, per tutta la durata della degenza, ho cercato di pubblicare un post al giorno per raccontare come mi sentissi e quali fossero gli sviluppi della malattia.
Sono rimasto davvero molto colpito e commosso da tutto quel calore. Ti dico senza vergogna che leggevo e piangevo ad ogni messaggio.
Anche dopo l’ospedale le persone hanno continuato a chiedermi, ad interessarsi e alcuni anche a ringraziarmi perché gli stavo raccontando qualcosa che era sì spaventoso ma attraverso i miei post era diventato improvvisamente reale e comprensibile.
Il ricordo più brutto e quello più bello durante quest’esperienza? Trasfigurati, potranno essere musica?
Il ricordo più brutto è stato sentire che uno dei due compagni di stanza accanto a me ad un certo punto non c’era più. Le sirene della macchina alla quale era collegato hanno suonato tutta la notte come fosse una colonna sonora ad un volume altissimo, interminabile.
È rimasto nel letto accanto al mio senza vita, fino alla mattina dopo. Senza che nessuno dei suoi familiari potesse vederlo.
Il ricordo più bello è stato quando sono andato via. Gli infermieri e i medici applaudivano ed erano emozionati quanto me. Un corridoio di persone che mi hanno salutato con dei sorrisi che non scorderò mai. Una felicità che in quel momento abbiamo condiviso, da due prospettive diverse.
Quello che ho vissuto in qualche modo entrerà nelle prossime canzoni che scriverò. Forse non in modo esplicito, perché faccio molta fatica a tornare con la mente a quei giorni, ma ne sono uscito cambiato e questa cosa non può non lasciare delle tracce.
Tu sei un grande musicista songwriter (Hollowblue, Stella Burns) nonché direttore artistico di un’etichetta discografica Love And Thunder. Da molti anni sei nel mondo della musica indipendente italiana, questa botta delle restrizioni degli eventi live dovuti al Covid-19 quanto inciderà sul settore?
Non riesco ad immaginare ancora, nonostante proprio oggi abbiano annunciato con un cauto ottimismo l’allentamento delle restrizioni, come potremo riprendere le nostre attività.
Sarà una ripresa sicuramente lenta in tutti gli ambiti e molti locali temo che non ce la faranno a superare le perdite di questi mesi. Il settore era già in crisi e adesso in tre mesi abbiamo toccato il fondo.
Al tempo stesso mi sembra che le persone dalle loro case abbiano sentito il bisogno di sostenere le attività creative e molti musicisti si siano ingegnati, nonostante tutto.
Spero che questa sia l’occasione per ripensare molti meccanismi sbagliati nel mondo della musica.
Ci sono alcuni movimenti che si sono attivati perché venga posta la giusta attenzione, con delle richieste concrete. È incredibile come ancora la musica in Italia non sia quasi mai considerata un vero lavoro. Non ci sono tutele e non c’è una mentalità adeguata. A volte dei musicisti stessi.
Quanto credi nella possibilità che un concerto possa essere venduto come un evento sportivo in solo streaming on demand? Può essere una nuova salvezza proprio per il settore della musica indipendente?
Non ci credo molto. Forse i concerti in ambito mainstream, ma non la musica indipendente. Non che mancherebbe il sostegno di molte persone, ma non credo sarebbero numeri sufficienti. Il discorso sulla musica indipendente in Italia è molto complesso. Come dicevo prima sarebbe necessario ripensare quasi tutto. A partire dal dare giusta dignità ad un lavoro che non è solo mosso da passione, ma da studio, energie, soldi spesi, tempo dedicato e sacrifici.
Per me sei il David Bowie italiano, c’è una canzone del Duca Bianco che ti è venuta in mente in questi giorni di pandemia e perché?
Grazie per l’accostamento azzardato! Come puoi immaginare mi fa un enorme piacere ma ad esser sinceri ho fatto un decimo di quanto ha fatto lui. Forse se riuscissi mai a pubblicare tutti i progetti che ho nel cassetto sarebbe sempre poco ma almeno potrei dimostrare maggiore eclettismo.
In questo periodo ho pensato ad una sua canzone in particolare: Drive in Saturday.
Bowie canta di un futuro post apocalittico in cui le persone non sanno più cosa voglia dire far l’amore e vanno a vedere al drive in dei vecchi film degli anni 60 e 70 per impararlo. Credo che nella tragedia che stiamo vivendo ci sia potenzialmente anche l’opportunità di ripartire a vari livelli e di riscoprire molte cose di noi stessi che, nelle vite veloci che facciamo, abbiamo spesso messo da parte.
Ho visto che hai pubblicato una demo molto semplice e bella. Ci parli di come è nata We cannot decide?
Quella mattina, erano passati dieci giorni dalle dimissioni dall’ospedale, ricordo di essermi svegliato sentendomi non molto bene. Per reazione al malessere e per paura di una ricaduta, mi sono alzato dal letto e, nonostante fossi ancora debole, ho cominciato a suonare, ed è venuta fuori quella canzone in pochi minuti. Ho fatto un piccolo video, il primo e unico dall’inizio della malattia, e l’ho postato. Essenzialmente era un modo per dire a me stesso e a chi mi segue: “ci sono ancora e riesco ancora a fare quello che mi piace di più fare”. È una piccola canzone d’amore per la mia compagna senza la quale mi sarei sentito perso e che, come puoi immaginare, si è presa un carico emotivo (e anche pratico per tutta la quarantena) non indifferente. La canzone punta l’attenzione su un dato di fatto… non possiamo sapere cosa la natura ci riserverà, ma non per questo smetteremo di andare avanti e reagire.
Un mese dopo, ancora chiuso in quarantena, ho pensato che quella bozza di canzone, anche simbolicamente, andasse terminata. Una sera ho finito di scriverne il testo, l’ho cantata e ho registrato l’arrangiamento. La mattina dopo è arrivato in anticipo il responso del secondo tampone: finalmente negativo dopo 59 giorni.