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Una forma di rivoluzione: intervista a Guido Maria Grillo

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Ho incontrato una mia vecchia conoscenza, avvalendomi di un’affinità elettiva che non necessita di spazio e tempo convenzionali, ma che si prende il privilegio di un dialogo dilatato e morbido, dove sono la verità e la curiosità a dettare le regole. Regole diverse dal solito, che si ribellano e raccontano storie lontane dalle mode e dall’omologazione. Io scelgo di domandare a Guido, Guido sceglie di non temere di denudare una dimensione artistica costtuita sul talento, sullo studio, sulla competenza, sulla consapevolezza, sulla cultura apolide e preziosa. Guido non cede al mercato, non vuole somigliare al prodotto assettato di captatio benevolentiae. Guido è un essere libero, ribelle, con un percorso delineato soltanto dalla profondità e dalla grazia della sua ispirazione. C’è meravigliosa e affamata Bellezza nella sua produzione. Scoprirla è il mio invito ai nostri lettori.

Il 20 Gennaio hai scelto di lanciare A chi tene ‘o core, il tuo nuovo singolo che anticipa un ep in arrivo il prossimo Marzo. Posso definirlo la tua rivoluzione?
Puoi, perché è un po’ così. Un anno fa, percepivo di essere ad un giro di boa, avevo pubblicato un disco molto importante, per me, che si chiama Senso, e a cui, purtroppo, non sono riuscito a garantire la giusta visibilità. Lo definisco “importante” perché è la summa di anni di scrittura e di concerti, è prodotto da Barezzi Festival e registrato quasi esclusivamente con un quintetto d’archi ed ombre di pianoforte. Dunque, un disco folle e coraggioso, per questi anni, romanticamente anni ’60, lontanissimo dalle produzioni sia indie, sia mainstream. Rappresentava plasticamente la mia incompatibilità artistica con le logiche commerciali in capo alla musica ma, al contempo, chiudeva un lungo capitolo, cui avrebbe dovuto seguirne un altro, auspicabilmente altrettanto coraggioso, che mi rispecchiasse fedelmente.

La tua cifra stilistica è sempre stata particolarmente definita, in equilibrio tra classica e moderna. Oggi estremizzi, aggiungendo al mix sonoro un codice linguistico diverso: il dialetto napoletano. Quando hai maturato dentro di te questa scelta?
È il frutto di una folgorazione, scevra da ogni forma di calcolo o premeditazione.
Un anno fa, mentre ascoltavo capolavori della canzone napoletana, iniziai a canticchiare un testo improvvisato, in dialetto napoletano, su una melodia che avevo in testa da qualche giorno. Era la strofa di A chi tene ‘o core. Mi chiusi nel mio studio/camera da letto e mi si spalancò dinanzi un orizzonte nuovo e insospettabile.
Non avevo mai utilizzato il napoletano e mi chiesi come avessi potuto farne a meno, fino a quel momento. Il vestito era perfetto, cucito sulla mia voce, sulla mia melodia, sulla mia vibrazione, sulla mia posizione nel cosmo, sul mio sentire il tumulto del mondo. È stato come ritrovare, nei meandri del subconscio, un baule colmo di parole, che mi sono sempre appartenute, ma la cui esistenza trascuravo. E quelle parole avevano i miei stessi umori, erano la trasposizione della mia sensibilità nella forma precisa di una lingua.
Quella lingua, poi, ha trascinato con sé colori e soluzioni armoniche tipiche della canzone napoletana, che a loro volta hanno evocato suggestioni del Mediterraneo e Medio-Oriente, perché certa musica sa essere un inarrestabile veicolo di incontro, contaminazione ed integrazione.
È una prospettiva, questa, che dovremmo tenere ben a mente quando affrontiamo questioni come emigrazioni, accoglienza ed integrazione, appunto.
Credo sia venuto fuori qualcosa di totalmente nuovo, per me, in cui credo di essere, comunque, riconoscibile. In sintesi, mi pare di essermi evoluto rimanendo me stesso. Il massimo che potessi augurarmi.

Dal punto di vista strettamente compositivo, metrico ed emotivo, cosa significa adoperare il dialetto? Soprattutto il napoletano, sembra avere a che fare con un’aura di sacro e di atavico, ai limiti del misterico nel suo connubio fonetico e lessicale.
Il dialetto napoletano ha il mio mood, come dicevo, sa essere drammatico, malinconico, poetico, viscerale, immaginifico, passionale. Dal punto di vista strettamente musicale, poi, è geneticamente melodico, ondeggia, si lascia masticare, sussurrare senza spigoli, urlare con veemenza. In fondo, credo, il mio modo di cantare è sempre stato idealmente “napoletano”, anche quando scrivevo solo in italiano, per la mia naturale propensione a modellare le parole e “caricare” le melodie.
In questa canzone, come nell’intero Ep, italiano e napoletano dialogano continuamente, si contaminano, qualche volta si fondono, spesso convivono in una stessa frase. La contaminazione è uno degli aspetti più interessanti, nell’utilizzo dei dialetti, è la verità stessa di cui si sostanziano, carichi di storia e di vita come sono.
Questo dialogo continuo è frutto di un processo compositivo del tutto spontaneo, in cui mi sono lasciato suggestionare dai suoni dell’una e dell’altra lingua e le ho scelte in base alla  coerenza con il contesto, con l’accordo su cui poggiavano o l’atmosfera che le avvolgeva, ad esempio.
Il napoletano, infine, è una lingua universale, compresa quasi in ogni angolo del pianeta, ed ha la capacità di farsi comprendere anche quando non se ne conosca il significato letterale, per la potenza evocativa e immaginifica del suo lirismo. È lingua di musica, teatro, cinema. Per queste ragioni, mi piace pensare che la mia sia una canzone napoletana classico-contemporanea, un concetto solo apparentemente ossimorico.

Raccontami il significato di questa canzone, un inno alla Resistenza.
Come per ogni forma di espressione, non si può considerare il senso di una canzone avulso dal contesto, dunque anche dai riferimenti sempre
nuovi cui conduce la naturale evoluzione del contesto stesso.
Ciò fa sì che il significato sia in qualche modo aperto, mai univoco, sempre reinterpretabile, anche quando fa perno su cardini solidi, su sentimenti o ideali irriducibili come la Resistenza e la Libertà. In questo caso, a mutare  sono sfumature, seppur significative.
Ho scritto il testo nella penombra dello spirito, tra lo smarrimento e la brama di rivalsa, con l’approccio disincantato ma combattivo di chi ha scelto di affrontare fino in fondo una battaglia, ben consapevole, al contempo, dei rischi e della sua necessarietà. Mi riferisco al fare musica, nonostante le difficoltà, una pura necessità; lo affermo senza tema perché ho esperito, sulla mia stessa pelle, la sua inesorabile capacità di determinare umore e condizione psicologica. Il testo raccontava, dunque, la mia personale Resistenza.
Eppure, strada facendo, il suo significato si è arricchito di nuove sfumature, come quando pensai di girare il videoclip in luoghi particolarmente significativi, in cui Resistenza e Libertà incidono la carne di uomini e donne. In quei luoghi, hanno preso il sopravvento le loro storie, la loro sfida alla vita e alla morte attraversando il mare.
Poi, la pandemia, condizione di alienazione individuale e sociale, che ci ha imposto di ridisegnare le mappe della nostra esistenza, e di Resistere per riconquistare la nostra Libertà. E, allora, è diventata anche un’esortazione ad avere coraggio e cuore in tempi di affanno globale.
Infine, nei mesi di lavoro di produzione dell’intero Ep, ho vissuto una tragedia familiare che ha corso parallelamente alla realizzazione di queste canzoni, macchiandole, di mese in mese, delle sue tinte, delle illusioni e delle cadute.
L’epilogo è tragico e mette in discussione l’attendibilità stessa del messaggio che la canzone intende trasmettere; è vero, la morte non ha spaventato un uomo che ha mostrato un cuor di leone, ma è altrettanto vero che la vita, infine, lo ha lasciato solo.
Viviamo in bilico tra supposte verità e spietate smentite. Io non ho alcuna certezza in tasca e non desidero fornire slogan rassicuranti all’ascoltatore, vivo la dimensione emotiva profondamente, nelle gioie e nei dolori, e la musica mi aiuta a tracciare delle coordinate, per orientarmi, o smarrirmi solo un po’ di meno.

Ti definisci un cantautore apolide. Mi racconti questa aspirazione di libertà?
Il senso risiede in una condizione psicologica, più che fisica. Sono emotivamente e psicologicamente inquieto ed irrequieto. Per questa ragione, non mi sono mai sentito veramente a casa, in nessun luogo della mia vita, nemmeno in quello in cui sono nato. Probabilmente, soffro di una qualche affezione da sradicamento. Non ho radici robuste, ho un’indole fluttuante e verità volatili.
È possibile che io conviva con il desiderio inconscio di trovare un luogo da chiamare casa o, forse, che sia solo un’aspirazione naturale, una forma di “debolezza” umana.
L’utilizzo del dialetto napoletano rappresenta una possibilità, un’esplorazione nei luoghi d’origine alla ricerca di elementi che possano collocarmi nella contemporaneità. Ammetto di sentirmi un po’ a disagio, nel presente, di non riconoscermi in valori, riferimenti, modelli. Il fatto che, di epoca in epoca, i valori mutino è nell’ordine delle cose, ma la verità dell’oggi è che noi tutti viviamo quelle che Bauman ha definito “vite liquide”, ovvero, impalpabili, inafferrabili. La ragione di ciò risiede nella società liquida in cui siamo irrimediabilmente calati: una società in cui tutto è rapidissimo, in cui l’effimero è celebrato come necessario, salvo poi durare un battito di ciglia per poter essere soppiantato da un’altra fittizia necessità. Il superfluo è assurto a conquista di libertà e civiltà, mentre la voracità con la quale la società consuma i suoi prodotti, e noi stessi, rende impossibile qualsiasi sedimentazione o storicizzazione di valori, abitudini, modelli. Io vivo con fatica la dimensione dell’effimero, in ogni ambito e, nello specifico, anche in quello della produzione musicale. Dove sono e saranno i De Andrè e i Tenco di oggi?
Ho una naturale propensione all’idea di infinitezza; qualsiasi cosa faccia o pensi, anche nelle faccende quotidiane, conserva un’aspirazione all’infinito, inteso come la più lunga durata possibile, ovviamente. Con lo stesso spirito, scrivo canzoni augurandomi che restino, soffrendo all’idea che possano sparire nel giro di qualche settimana, superate da mode e trend.
Quel che ho scelto di fare è stato individuare nell’origine la mia unicità e, lasciando che dialogasse con il bagaglio dell’esperienza successiva, tentare di collocarmi nella contemporaneità in maniera personale riconoscibile. Ecco il perché del napoletano, ecco il perché di questo Ep.

Come riesci a coniugare questa attitudine con il nostro contesto così chiuso e settario? Quanto frustra il sistema musica Italia un artista come te?
Ti ho parzialmente risposto or ora. La contemporaneità comprende poco il mio approccio, così come io comprendo poco il suo. O meglio, io lo comprendo alla luce delle logiche che inesorabilmente lo muovono, cioè il mero profitto. Non c’è nulla di male nell’associare la musica, e qualsiasi espressione artistica, ad un profitto; il male insopportabile risiede nel fatto che sia l’unica logica riconosciuta, che non esista altro aspetto che giustifichi un interesse dall’alto.
Io non ho nulla contro il mainstream o il talent show, assolutamente, io mi scaglio contro l’assenza di alternativa, contro il disinteresse al concedere spazio ad altro, che risponda a logiche diverse, come l’originalità, lo spessore culturale, la ricerca, la sperimentazione e simili. Anche un bambino sa perfettamente che, all’origine, il più delle volte, il prodotto non va incontro al bisogno delle persone ma è esso stesso a generarlo. L’arte non è esente da questa dinamica.
L’industria discografica, con apparati annessi, avrebbe tutte le possibilità di aprire nuove fette di mercato, avvantaggiandosi anche della potenza divulgativa e persuasiva di web e social network, eppure non lo fa. Sceglie di massificare perché è più comodo, perché non è rischioso, perché il pensiero unico è più facilmente gestibile ed accontentabile. Non mi si dica che è una questione economica, che il sistema è povero e simili alibi: non è credibile, è evidente che, a certi livelli, basti pochissimo per generare numeri significativi, che da certi palazzi basti soffiare per scatenare una bufera.
Non nego che esistano esempi recenti di artisti “alternativi” che siano riusciti a ritagliarsi uno spazio, ma si tratta di mosche bianche, capaci di raggiungere simili obiettivi solo grazie al proprio talento e a pochi lungimiranti amici, addetti ai lavori. Nessun grosso discografico, nessun talent scout, nessuna major, nessun noto promoter li ha scovati agli esordi, ne ha intravisto il talento ed ha investito su di essi. Solo quando sono stati in grado di crearsi il proprio spazio, dunque, la propria fetta di mercato, s’è manifestato interesse dall’alto. Meglio tardi che mai, si direbbe, ma ciò dimostra che l’unica logica sia il profitto “take away” e che non ne esista altra lontanamente paragonabile. Per me, la soluzione è stata affidarmi alle mie sole forze e capacità, non so dove porterà ma questo Paese, ad oggi, non mi offre altre possibilità.

La tua vocalità è magnifica, ha una grazia oltre l’umano. Ricorda, e lo sai, quella del grande Jeff Buckley. Vuoi provare a raccontarmi il momento in cui hai sentito di volerla usare? E dimmi se Buckley è soltanto un termine di paragone oppure un fratello artistico che senti forte dentro di te.
L’accostamento a Jeff Buckley mi lusinga ma, credimi, è azzardato. È stato un grande amore e, certamente, un riferimento artistico e tecnico molto importante. Ho iniziato a suonare e cantare all’età di 15 anni ma a lavorare sulla vocalità solo intorno ai 20. Dico “lavorare” perché di lavoro si tratta, cioè di esercizio, cura e dedizione ai dettagli, alle sfumature dei timbri, delle tecniche e al controllo dell’istinto. Ho iniziato ad avere una voce veramente mia solo quando questo percorso di ricerca, del tutto personale e solitario, ha individuato la sua rotta. È ancora oggi un lavoro quotidiano, spesso faticoso e problematico, devo ammettere.
Le canzoni di questo Ep sono ricche di colori e timbri vari, la voce ha molti suoni ed adotta soluzioni differenti per adattarsi al meglio ad armonie ed atmosfere che, spesso, il dialetto enfatizza. Comunque, ho amato e amo Jeff Buckley, non soltanto per la vocalità, ma anche per sentimento e sensibilità.

Il videoclip del singolo ha un’atmosfera uggiosa, intona malinconia e sospensione. Dimmi dei suoi luoghi e dei suoi colori.
Il videoclip è girato in un lembo di terra che ha potente energia e carica emotiva. Un luogo che vive di fortissimi contrasti: la naturale bellezza ed il suo disprezzo, la semplicità del popolo e l’arroganza del potere, la ricchezza di risorse e l’isolamento geografico e culturale, la storia millenaria e l’indifferenza dei più, la forza della tradizione e l’insipienza del presente, la beatitudine del sud e il dramma della disperazione.
Si tratta della Costa dei Gelsomini, più nota come Locride, affaccio sul Mar Jonio, in provincia di Reggio Calabria. Nel video, la bellezza, l’alienazione, la decadenza, le ferite dell’abbandono e quelle dello spregio sono ben evidenti e gravate dal grigio livido del cielo e del mare.
Si tratta di territori che, senza soluzione di continuità, vivono il dramma di sbarchi anonimi, di barchini e barconi provenienti da Medio Oriente e Nordafrica, da cui scendono, quando sopravvivono, uomini, donne e bambini che il mare ha risparmiato, ma la vita ha già trafitto. Tra questi luoghi, c’è Riace, noto per le sue illuminate politiche di accoglienza ed integrazione, frutto del coraggio, dell’umanità e della visione di Mimmo Lucano, modello che il mondo ha encomiato (inserendolo, da sindaco di Riace e dei suoi duemila abitanti, tra i 50 leader politici più influenti al mondo, nel 2016) e che l’Italietta propagandista e sovranista ha smantellato e strumentalizzato.
Mi è sembrato che la potenza evocativa e drammatica di quei luoghi potesse vestire adeguatamente una canzone che parlasse di Resistenza, coraggio e Libertà.

Nel video, nella parte finale, il corpo si lascia andare ad una danza, che ha un montaggio particolare. Raccontamela…
Il video è ideato, diretto e montato da me medesimo. L’ho realizzato insieme a Vanessa, la mia compagna, che lo ha girato con il suo smartphone e ha ricoperto il ruolo che, nei videoclip che contano, si definisce “assistente alla regia”.
Lì eravamo completamente soli, assistente l’uno per l’altra, con in mano poco più che un telefono; avevo delle idee, qualche riferimento, l’energia dei luoghi ha fatto il resto. Ho pensato che quella danza sciamanica, apotropaica, mi mettesse idealmente in comunicazione con le viscere della terra, con la sua energia, con le ferite aperte della mia coscienza, con la storia millenaria di quel mare, di quel sud da cui io stesso provengo e a cui sono voluto tornare, con le parole, con le melodie e le armonie. Ho montato il tutto con un programmino da scuole medie, tagliuzzandolo frame dopo frame, cercando l’equilibrio tra dinamicità e staticità, seguendo il vento della costa, le raffiche e la quiete assoluta, la rapidità delle nuvole a meridione.

Cosa puoi anticiparmi dell’ep?
Ti ho raccontato praticamente tutto perché A chi tene ‘o core, il singolo, si inserisce perfettamente nell’intero Ep, che contiene 5 canzoni. In ognuna di esse convivono italiano e dialetto, certo cantautorato italico e straniero insieme a suggestioni della canzone napoletana classica, pop contemporaneo ed elettronica minimale, voci filtrate ed echi del Mediterraneo. Le musiche del Sud sono sempre strettamente interconnesse, raccontano storie comuni, conservano comuni colori, ritmi, melodie, armonie. Sono in grado di offrirci prospettive utili, che dovremmo considerare quando riflettiamo sulle presunte difficoltà dell’incontro tra popoli e culture.
Mi piace pensare che la mia musica offra un piccolo contributo alla costruzione di ponti.
L’Ep uscirà nella seconda metà di marzo e sarà anticipato da un altro singolo.

Il tempo attuale non è per nulla amico della musica live, ma potrebbe essere un’occasione per frenare, per tornare a quella lentezza nella comunicazione di un progetto che possa restituire un rapporto più umano con la fruizione musicale? Il pubblico e gli artisti mi sembra si stiano ritrovando nell’attesa, nella scoperta più consapevole della proposta.
Ora vorrei davvero partire, fare un tour, rimettermi in moto e macinare chilometri e concerti, come ho fatto negli scorsi anni. La sospensione mi è servita a ritrovarmi, mi ha fornito il tempo necessario per affrontare e ponderare scelte decisive, come quella di usare il dialetto. Mi ha permesso, ancora, di scrivere, produrre, meditare. Ora, però, prima che prenda il sopravvento l’alienazione, ho bisogno di ripartire, di far conoscere queste canzoni ad un pubblico più vasto possibile, nella dimensione del live, quella in cui, forse, mi esprimo meglio e più liberamente.
Rispetto a quanto la pandemia, il lockdown e l’isolamento abbiano davvero influenzato il nostro approccio alla vita, i rapporti sociali, economici e culturali, la nostra relazione con il pianeta e le sue ferite, migliorandoli, devo ammettere di essere molto scettico.
Sono convinto, anzi, che il modello economico-culturale di cui siamo vittime e complici non sia stato scalfito. Piuttosto, temo possa accelerare la sua corsa, come guidato da un’urgenza di rivalsa, nella cieca prospettiva di recuperare ciò che per strada ha perduto.
La musica non ne è esente, si ascrive al medesimo modello, risponde alle medesime logiche, non so quale sarà la forma della sua rivalsa e mi auguro di essere presto smentito.

A chi tene ‘o core – Video

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