Sebbene sia stata utilizzata negli Stati Uniti per definire un particolare momento del cool jazz sviluppatosi negli anni ’50 lungo la costa californiana grazie a musicisti del calibro di Chet Baker e Gerry Mulligan, in Italia dopo l’uscita di 4 Way Street di Crosby, Stills & Nash & Young l’espressione West Coast ha assunto un significato del tutto diverso, diventando l’ampio cappello sotto il quale riunire tutta la controcultura proveniente dalla Baia di San Francisco, durante la turbolenta stagione delle battaglie per i diritti civili e contro la guerra in Vietnam. Un variopinto calderone che accomuna esperienze profondamente diverse come i Jefferson Airplane e Joni Mitchell, Frank Zappa e i Quicksilver Messenger Service. Probabilmente il più significativo contributo alla definizione nostrana del genere viene proprio dal live pubblicato il 7 aprile del 1971 dalla Atlantic Records e giunto rapidamente al numero uno della classicifa Billboard 200, che immortala la band in una serie di concerti tenuti nel corso del 1970 al Fillmore East di New York (2-7 giugno), al Forum di Los Angeles (26-28 giugno) e all’Auditorium Theatre di Chicago (5 luglio). Le quattro strade, le quattro maniere di intendere la musica, la composizione, l’armonia non troveranno mai più una convergenza simile, tanto fluida e dinamica da essere appunto equiparata sin dal titolo al nome di una via, un fiume in costante cambiamento (parola chiave dell’intera stagione culturale); ed è per questo assolutamente efficace l’idea di aprire l’album sfumando in fade-in la lunga Suite Judy Blue eyes, ridotta al solo coretto finale, perché ci catapulta in medias res come aprendo improvvisamente il sipario di uno spettacolo che va avanti da ore. Ed è quindi On the way home di Young (già incisa con afflato beat assieme ai Buffalo Springfield) a definire immediatamente l’atmosfera di un set acustico a due chitarre e tre voci che si armonizzano con la principale, in raddoppio e in controcanto. La West Coast come sopra descritta è tutta in questa sofferta ballata d’amore, con la sua melodia corale, le distanze malinconiche, il senso di perdita e rimpianto, l’assolo spoglio e grezzo quanto lirico. Ne sono imprescindibile contraltare la solare Teach your children, morbido e orecchiabile inno di rivoluzione sociale e culturale (“Don’t you ever ask them, Why? / If they told you, you would cry / So, just look at them and sigh / And know they love you“), e la tortuosa trama di Triad, che descrive un ménage à trois come un tabù da abbattere per spezzare convenzioni bigotte e sensi di colpa (“Your mother’s ghost stands at your shoulder / Got a face like ice just a little bit colder / Saying to you / Can not do that it breaks all the rules / You learned in schools / But I don’t really see / Why can’t we go on as three“). Se la prima gioca musicalmente sulla facile urgenza, il capolavoro di Crosby, inciso per la prima volta dai Jefferson Airplane in Crown of Creation (1968), trova qui la prima versione dell’autore in una complessa e oscura scomposizione armonica. Mentre il bordone di The Lee Shore, ancora di Crosby, esplora il versante immaginifico e panteista nella contemplazione degli sconfinati spazi della natura, Chicago di Nash (dal suo esordio Songs for Beginners del 1971) è una rabbiosa marcia di protesta per piano martellante e sfoghi di grida, ispirata ai disordini alla Convention del Partito Democratico del 1968 e al seguente processo contro gli attivisti organizzatori (episodio recentemente portato sul piccolo schermo dal film The Trial of the Chicago 7, didascalico quanto storicamente corretto e con uno strepitoso Sacha Baron Cohen nei panni di Abbie Hoffman). Da quella grinta scaturisce l’amore di Right Between the Eyes, ballata tenue e corale dal giro armonico calante che inneggia senza retorica alla tempra morale di chi non deve temere di guardare il prossimo negli occhi. Parole che sembrano descrivere la statura di Young che si ritaglia la scena prima con la struggente ballata Cowgirl in the sand e poi con la succulenta anticipazione Don’t let it bring you down, dal suo imminente After the gold rush, con quel falsetto lancinante e quegli accordi così pieni e vibranti. Poi è Stills a prendersi il suo momento con la trascinante 49 Bye-Byes/America’s children, energica cavalcata pianistica, che il pubblico non può trattenersi dall’accompagnare con un sonoro battimani, mentre la voce roca e possente s’infervora in fraseggi urlati, acuti in falsetto e variazioni sul tema di For what it’s worth. Ma è ancora con una composizione di Stills, Love the one you’re with dal suo debutto solista, che la band si ricompatta per un crescendo ritmico acustico di dinamiche armonie vocali, chiudendo idealmente la prima metà di una scaletta concepita in origine sulle quattro facciate del doppio vinile, cui la ristampa in CD del 1992 poco ha aggiunto in termini di comprensione delle due anime che convivevano negli show del quartetto. L’apertura della terza facciata della prima edizione con il rock sanguigno di Pre-Road downs metteva subito in chiaro, invece, l’atmosfera della seconda parte del live, tutto giocato sull’improvvisazione, le jam dilatate, gli assoli elettrici e spigolosi che laceravano con squarci profondi il quadretto bucolico delle melodiose armonie vocali di quattro cantanti straordinari. Persino Long time gone, che pure aveva nel disco di esordio di CSN un coro tanto pungente quanto melodioso, è sconvolta dalla ruvida furia di una jam graffiante dagli artigli affilati, mentre Southern Man, altra anticipazione da After the gold rush, diventa la pietra di paragone di tutte le straripanti cavalcate elettriche messe in scena da Young nella sua lunghissima carriera, scuotendo brutalmente il tema dell’invettiva feroce contro il razzismo degli stati del Sud degli USA (“Southern change gonna come at last / Now your crosses are burning fast“), mentre trasforma il dolore delle vittime del Ku Klux Klan in infiammata rivolta a suon di chitarre distorte, corde ardenti e lame acuminate. Irruenza urticante e vorticosa che informa anche la concisa Ohio, veemente protesta contro le uccisioni alla Kent State Univerity (“Tin soldiers and Nixon coming / We’re finally on our own / This summer I hear the drumming / Four dead in Ohio“), e dilaga nuovamente nella freschezza ritmica di Carry on, appena intervallata da chorus armonici che sono piuttosto il trampolino di lancio di una nuova e frenetica jam improvvisata. Dopo una tale sbornia di schitarrate adrenaliniche che si susseguono per oltre mezz’ora, il concerto simulato dai solchi di vinile si chiude con Find the cost of freedom, intrecciando ancora una volta le chitarre acustiche per presentare un lirico canto a cappella di profonda speranza, “Find the cost of freedom / Buried in the ground / Mother Earth will swallow you / Lay your body down“.
Credits
Label: Atlantic – 1971
Line-up: David Crosby (vocals, guitar) – Stephen Stills (vocals, guitar, piano, organ) – Graham Nash (vocals, guitar, piano, organ) – Neil Young (vocals, guitar) – Calvin “Fuzzy” Samuels (bass) – Johnny Barbata (drums)
Tracklist:
- Suite: Judy Blue Eyes (coda)
- On the Way Home
- Teach Your Children
- Triad
- The Lee Shore
- Chicago
- Right Between the Eyes
- Cowgirl in the Sand
- Don’t Let It Bring You Down
- 49 Bye-Byes/America’s Children
- Love the One You’re With
- Pre-Road Downs
- Long Time Gone
- Southern Man
- Ohio
- Carry On
- Find the Cost of Freedom