Provate a googlare “Motorpsycho” e scoprirete un mondo di siti dedicati al metal in cui è difficile per i neofiti districarsi: Truemetal, Metallus, Metalitalia, Heavymetalwebzine, Metallized, Metalhead, Hardsounds, Metal e via discorrendo. Non sono mai stato un amante del metal, in nessuna delle sue declinazioni, ad eccezione dei padri fondatori, Deep Purlpe e Black Sabbath, ai quali aggiungerei certe prove dei King Crimson, che hanno introdotto il ritmo della Sagra della Primavera di Stravinskij nel rock, e poco altro davvero. Per il resto non ho mai digerito la doppia cassa, i riff speed, il non-canto gutturale death e doom, il satanismo, il look, i nomi dei gruppi e tutto l’armamentario standard del genere. Ma allora com’è che mi piacciano da morire i Motorpsycho? La risposta è molto semplice: non sono una band metal. Semplicemente non sono una band di genere, tuttalpiù li ascriverei al progressive, inteso non come forma di rock orchestrale e sinfonico bensì come attitudine all’apertura mentale, alla ricerca, all’esperimento, al miscuglio alchemico. E poco importa se alcuni ingredienti richiamano palesemente certi stilemi, certe architetture compositive, l’aspra durezza di suoni saturi e distorti delle chitarre che dilagano ovunque. La varietà di timbri e soluzioni messi in campo è tale da far prevalere in ogni caso la libertà d’espressione sul casellario “giudiziario” dei generi, in un album che non parla a una tribù ma a chiunque abbia orecchie per ascoltare. Ascoltare. Nobile e filosofica azione, rara quanto necessaria, il miglior allenamento della mente, toccasana contro il raggrinzire delle playlist categoriche. Qui siamo nel Regno dell’Oblio, la dimenticanza, a partire dalla copertina disegnata dall’artista norvegese Sverre Malling, sulle orme di Alan Lee, che ritrae con matite leggere una testa mozzata al centro di un campo latteo dai cui capelli sorge una selva di funghi e erbe, ma non siamo nel mondo degli allucinogeni, bensì nella rarefatta e spiazzante casa della perdita di memoria. Così il segno grafico di Sverre dà la cifra dell’album, sfilacciato e sgranato, volontariamente, in una serie di fiammate infuocate, in linea con la produzione più hard della band scandinava, che emergono o sprofondano in una nebbia impenetrabile di silenzi ovattati e misteriosi. I power chords di The Waning (Pt.1 & 2), con la sua pienezza scintillante e dinamica, infatti, affondano nella stratificazione psichedelica di chitarre ardenti che si sfalda in un’ultima nota dissonante che si allontana traportata dal carro cosmico dell’oblio. Per questo Kingdom Of Oblivion suona come una fanfara marziale che introduce ai saloni austeri della corte, dove s’intona l’inno di benvenuto previsto dal cerimoniale di guerra, in adorazione della chitarra sanguigna e affilata dei sovrani, prima che dei licks scivolosi presi in prestito agli Yes conducano gli astanti al primo colpo di amnesia magica. Dai fumi dell’incanto viene fuori un David Crosby dei tempi d’oro con una perla, Lady May, degna della migliore West Coast, dei suoi intrecci vocali assorti, dei suoi cori malinconici, la sua psichedelia morbida e sognante. Parentesi d’oblio, dalla quale s’innalza la classica The United Debased con i suoi lenti e pesanti riff di marca Black Sabbath e tempi dilatati che vanno a schiantarsi nel mondo destrutturato di The Watcher, in cui entra in scena la band fittizia The Crimson Eye per omaggiare gli Hawckwind di Ian Fraser Kilmister, alias Lemmi, autore di questo blues atipico, involuto e allucinato, decisamente lontano dallo space rock dell’album Doremi Fasol Latido (1972) che lo conteneva, ma assolutamente in linea con la visione di questa nuova prova dei Motorpsycho. Un caleidoscopio narcotico in cui le meditative trame di Dreamkiller sono squarciate dai riff taglienti di Paranoid che si trasformano in loop per le arcaiche evoluzioni del mellotron e gli intrecci acidi delle chitarre, prima di perdersi nuovamente nel dolce madrigale acustico Atet, dalle cui armonie strumentali affiora la ballata rock At Empire’s End, armata di coralità magnetica e intermezzi passionali che da singole note di piano acquoso, tratte da Echoes dei Pink Floyd, si complicano come spartiti barocchi degli Yes. E resta in terra d’albione il folk ambizioso di The Hunt e la sua struttura ciclica di Chimera che ravviva il brio dei Jethro Tull e l’obliquità dei Pentangle con la violenza dell’epica scandinava, l’inquietante lamento di un violino in agonia, l’inno del branco in memoria dei compagni caduti, il cui spirito brancola nella sala ormai spenta del banchetto, su cui cala il sipario di After The Fair. Ma non è anora finita, perché The Transmutation Of Cosmoctopus Lurker torna a scuotere le membra sopite in cerca dell’ultimo risolutivo scontro di una battaglia per sconfiggere l’oblio a suon di chitarre possenti, formule magiche, tormente di timpani, fraseggi metallici e oscuri, fughe di Bach lisergiche e forsennate, bassi debordanti alla Chris Squire, tempi dispari e cambi di passo. Ce la mettono tutta e quasi stordiscono per undici minuti da antologia del prog, e dopo aver staccato la testa del Re dell’Oblio i tre cavalieri si allontanano dalle nebbie lattee come dalla polvere di un duello western, cavalcando sulle note finalmente rilassate di Cormorant, in direzione di nuove imprese.
Credits
Label: Stickman Records – 2021
Line-up: Bent Sæther (lead vocals, bass, guitars, keyboards, drums) – Hans Magnus “Snah” Ryan (lead guitars, vocals, keyboards, violin, bass) – Tomas Järmyr (drums) – Reine Fiske (guitar, keyboards)
Tracklist:
- The Waning (Pt.1 & 2)
- Kingdom Of Oblivion
- Lady May
- The United Debased
- The Watcher (Featuring The Crimson Eye)
- Dreamkiller
- Atet
- At Empire’s End
- The Hunt
- After The Fair
- The Transmutation Of Cosmoctopus Lurker
- Cormorant
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