Nel giorno dell’uscita di una nuova canzone targata Rosaroll, abbiamo incontrato Stefano De Stefano per farci raccontare i suoi progetti e le modalità secondo cui, oggi, ispirazione e aspirazioni possono coesistere dentro (o fuori?) il sistema confuso e stanco della musica, così ammaliata da streaming, talent e… velocità.
Eccoci qui a raccontare un nuovo percorso. Da dove arriva l’esigenza di provare nuove soluzioni, in primis di lingua, rispetto al tuo passato artistico?
Rosaroll non ammazza An Early Bird, che resta il mio progetto principale, ma amplia la mia paletta sonora ed espressiva allargandosi alla lingua italiana che finora è stata un tabù per me. Avevo semplicemente voglia di nuove sfide che mi mettessero in gioco. E poi ero stanco di ascoltare tanta musica sbiadita che ricalca cose che sono copie di cose quindi ho pensato di dire la mia in questo grande calderone che è la musica italiana.
Quanto il passato in inglese, così vicino ad una precisa matrice di genere, ti ha appagato e quanto, invece, ti ha lasciato dei sospesi?
L’inglese mi calza tuttora a pennello, è comodo per me come una tuta che uso per casa. Diciamo che, arrivato al terzo disco e con il quarto in cantiere, ho sentito di aver già esplorato molto e quindi mi sono diretto verso un territorio che finora era rimasto inesplorato. La cosa di cui l’inglese mi priva è il contatto più diretto con chi mi ascolta qui in Italia. È innegabile: la lingua italiana per gli italiani è un elemento di connessione potentissimo che l’inglese qui non potrà mai avere.
Quali differenze rilevanti puoi sottolineare tra inglese ed italiano rispetto al tuo metodo compositivo? Quale delle due lingue consideri più vincolata ai “generi”? Come è possibile rompere il cliché lingua-genere?
Provenendo da una scrittura inglese faccio più fatica a staccarmi dai generi con l’italiano, anche se la grossa pregiudiziale nel mio caso è data dallo strumento con cui scelgo di comporre. In genere se sono al pianoforte tendo a risultare più “classico”, con la chitarra mi avvicino di più alle cose di AEB. Più in generale però credo che alla base dei cliché legati al genere ci sia la poca voglia di osare e prendere le distanze da quelle che sono le formule più usate e che funzionano di più a livello di streams e playlist. Oggi abbiamo dei modelli di fruizione di riferimento che suggeriscono di stare dietro la linea, se vuoi essere riconosciuto in una scena di consumo: le stesse playlist di genere indicano chiaramente questa strada. Se fai qualcosa che non è evidentemente classificabile in un genere per il quale è prevista una playlist, la situazione diventa difficile. E quindi il cliché lingua-genere diventa quasi un cavallo di Troia per entrare in certi ambienti di ascolto.
Raccontami i passi di questo nuovo progetto.
Lo scorso marzo per noia ho risposto a un talent scout di un noto talent musicale, la cosa è andata avanti per un paio di step fino a che non ho deciso di fermarmi perché sentivo che quello non era il mio mondo. Ma mi è rimasta la convinzione che smuovere un po’ le acque della mia routine artistica mi avrebbe fatto bene e così è arrivata l’idea di creare qualcosa di puro in italiano e che non fosse una semplice “traduzione” di quello che già facevo in inglese.
La pandemia ha messo a dura prova il settore musica, mi riferisco soprattutto ai live, già così strozzati dalla quasi scomparsa di una terra di mezzo, dove prima il sottobosco risultava più florido, tra emergenti più in vista e più numerosi spazi dove poter esibirsi. Con quale stato d’animo un artista, come te, si muove oggi?
Il mio stato d’animo è quello dell’incertezza di chi si muove a braccio con un lanternino. Sicuramente tornare a fare tantissime date in posti piccoli, con mezzi di spostamento vari ed eventuali, non è più qualcosa che mi alletta. Già ampiamente fatto. Farò meno cose ma più rilevanti: per dirti, due settimane fa sono stato a Vienna a suonare in un locale di circuito pieno di gente interessante ed interessata alla mia musica. Queste oggi per me sono le cose che vale la pena fare: conoscere, esplorare, aprirsi.
Proprio la pandemia sembra aver dato più credito, purtroppo, alla musica “televisiva” e allo streaming. Credi sia solo una nuova decadente parentesi oppure una formula inevitabile per un cambiamento che finirà con l’assottigliare ancora di più la proposta?
Quello che prima era un cambiamento è ormai la realtà da un paio di anni abbondanti ormai. In questo caso per me la parola modernità è sinonimo di decadenza. Non è più nemmeno questione di qualità ma di velocità: un progetto che esce da un talent può anche essere di valore ma si gioca tutto sul fattore della velocità con cui riesce a bruciare tutti gli step per illuminare momentaneamente un’epoca buia, frettolosa e pigra. Esistono le eccezioni ovviamente ma di fatto l’ecosistema musica è dopato.
Tornando a te, ma restando in tema, come pensi di gestire il lato dei live e la diffusione del tuo progetto?
Rosaroll non uscirà con un disco ma con delle canzoni: essendo un progetto nuovo non sento l’obbligo nel 2021 di seguire il classico percorso che farei con AEB. Quindi pubblicherò dei singoli man mano che la voglia e l’ispirazione me lo diranno, in modo molto sereno. Sarà una piccola finestra che si aprirà sulla mia creatività con una cadenza non decisa a priori. Riguardo i live… nulla mi vieta di eseguire qualche brano durante i concerti di AEB. In fondo si tratta sempre di me no?