E sì che si torna a respirare tutti insieme, a dare aria ai polmoni e a canticchiare con una bella sensazione di solletico sotto le piante dei piedi. Parta la Ola a salutare il terzo lavoro in studio de La Maschera, band napoletana che qui raggiunge vette di lirismo e profondità di contenuti che li collocano, sgombriamo subito il campo da ogni eventuale dubbio, nella florida Arcadia musicale che continua rigogliosa a svilupparsi attorno ai fianchi generosi della sirena Parthenope. Nove tracce che vanno a comporre un gruppo laocoontico di sentimenti e risentimenti, storie delicatissime ed altre stridenti ma tutte pervase da grande sincerità narrativa ed incorniciate in una scatola dalle sonorità assolutamente trascinanti. Ogni compostezza è abbandonata, nessuno schermo tra il dire ed il pensare, il petto in fuori rispondendo al richiamo per chi ha cuore, inteso come ultima arma, anziché bersaglio, per dare voce agli esclusi, per arrampicarsi sulla rupe del riscatto e non guardare mai più sotto i piedi. Dicono che tre sia il numero perfetto e con Sotto chi tene core la conferma di questo antico adagio sembra farsi granitica, prendendo le sembianze di un concept album a cui non manca davvero nulla per innestarsi tra le migliori uscite di questo primo scorcio del 2022. La poesia che tracima passando attraverso le maglie, anche quelle più strette, dei recinti entro cui la vita quotidiana ci imprigiona, quasi gabbie di Faraday ad allontanarci dal bello, è medicamento di assoluto sollievo, quasi ti distende su un’amaca all’ombra arborea. Ma lo senti, te ne accorgi che sotto la tela inizia ad ardere il fuoco che prende innesco dalla necessità di stringere i pugni e dall’urgenza di agitarli in direzione delle storture che silenziano anche gli eroismi. E allora andiamole a srotolare queste nove pergamene sonore, lasciamocene accarezzare e graffiare, assaporandone il miele e l’aceto che si alternano nelle storie degli eroi ammutoliti, delle relazioni deflagrate, di quelli che resistono e di quelli che attaccano.
Inumidiamo le dita per sfogliare con delicatezza queste pagine che iniziano con la travolgente title track Sotto chi tene core, un invito a schierarsi senza filtri, a sporcarsi le mani affondandole nella dannata plastilina di cui è sempre più composto questo pianeta fradicio di ingiustizia. I fiati incessanti portano il sangue alla temperatura di fusione, quella adatta ad iniziare a cambiare le cose, mentre la voce di Roberto Colella completa un mosaico da cui si incominciano ad intravedere gli invisibili a cui dare luce, come fiamma fatta passare sotto un foglio su cui si è scritto con acqua e limone, come facevamo da bambini. Un filo rosso sembra congiungere questa traccia, almeno nel mio cranio, con Nunn’ è ancora fernuta contenuta nell’ultimo recente lavoro dei FOJA, annodate in un abbraccio virtuale a ribadire chiaro che “vivere è resistenza” e solo resistendo si arriva ad apparire o riapparire. Mirella è Felice affresca (a quattro mani con la splendida penna di Tommaso Primo) una storia commovente ed al contempo emblematica di sentimenti e rivoluzione sociale. Il gioco di parole del titolo riviene dall’incontro dei nomi e delle vite di Felice Pignataro, prolifico muralista napoletano scomparso nel 2004 e della sua storica altra metà del cielo, Mirella La Magna. Una commistione perfetta di anime che ha portato alla creazione del GRIDAS (Gruppo di Risveglio dal Sonno), della Controscuola e del Carnevale di Scampia, riuscito tentativo di recupero delle periferie da quel sonno della ragione che, per dirla con una frase presente in una delle incisioni della “Quinta del Sordo” di Francisco Goya, non può che produrre mostri. Loro sì che la guerra l’hanno combattuta e vinta senza armi. Ancora luce su un altro illuminato nella successiva Conosci Thomas?, che riaccende i fari su una figura poco ricordata, quella di Thomas Isidore Noel Sankara, ma che rappresenta un altro sacrificato nel tentativo di ridare dignità agli oppressi, ad un popolo, quello del Burkina Faso di cui era presidente fino al 1987 quando venne brutalmente assassinato per mano del suo migliore amico. Il punto interrogativo del titolo è una domanda violenta come un pugno alla bocca dello stomaco. Una profonda riflessione su quanto sia strana la razza umana, una storia di rivoluzione e tradimento, di una vita spezzata nel tentativo di dare vesti alle carni nude e di allontanare la pelle dalle ossa almeno un pò. Pochi posters e poche magliette con il volto di Sankara, questo testo prova a ricollocare alla giusta altezza una icona di gigantesco spessore, che ebbe il coraggio di mantenere la schiena dritta in un continente da secoli depredato sotto il riparo dello scudo marcio del colonialismo contro cui non smise mai di opporre la sua idea di libertà. Core ‘e lignamme è un dolcissimo ritratto di una capa storta, di una esistenza silente e complicata come ricomporre con la colla una sfera di cristallo frantumatasi in mille pezzi al contatto con la vita reale e che non fa sconti. Pasquale che cerca di “aggiustare la vita con un cucchiaio sul fuoco”, la galera come approdo quasi naturale per chi sbaglia senza rete di protezione, per chi non ha voce né pace, mentre “chi ruba veramente, per chissà quale legge strana, o è ministro o è presidente”. Ma nonostante tutto mantiene amore nel suo sguardo, “segno che sono ancora vivo”. A testimoniare, riprendendo le parole di Palahniuk che “la felicità non ci lascia cicatrici da mostrare; dalla quiete impariamo così poco”. Parte poi un viaggio della disperazione con Dorme cu’ mmé, una ninna nanna con archi delicatissimi a cullare e fiati a ridestare teneramente. Storia di una traversata con ali di cera o su barche di sale, destinate a sciogliersi troppo distanti dalla partenza e dall’arrivo. Farookh beve speranza, addormentandosi ebbro, restando bimbo per sempre, in un finale di terribile amarezza, come un manifesto dell’attesa che non si compie e che resta sospesa. La costanza come spina dorsale di Chi se vò bene. L’amore che non ha catenacci ma collanti di ambrosia, lacci di cotone leggero e profumato, mai stretti, che non lasciano segni sulla pelle, a collegare le calamite esplose tra i cuori. “Teatro di mille paure è l’amore”, con i suoi scatti improvvisi e le sue ritirate strazianti alle volte ancora più veloci, nonostante la fatica per ogni passo avanzato ed i temporali superati confondendo la pioggia con il sudore. Ritmo sincopato in 14 agosto, a raccontare un dialogo metaforico tra mente e cuore, qui rappresentati, durante una navigazione, dalle figure di un capitano e di un suo rematore che sembrano voler andare in due direzioni contrarie ma che alla fine, ancor prima di rendersene conto, convergono sulla via del ritorno, con la rassegnazione che pervade chi si sentiva ad un passo dall’Eden mentre qualcuno stacca la mela senza avvisare. A cosa justa con il testo di Alessio Sollo è una tenera ballata per un amore perduto e non scordato, un’autoaccusa ad inquadrare i propri limiti attraverso lastre radiografiche da cui vedi l’interno e non il contorno. Fotogrammi da Polaroid. Il tempo speso a scuotere la carta per vedere comparire le immagini. Le punesse per attaccarle al muro prima che scivolassero nel cassetto delle granate disinnescate, in compagnia dei carillon. Nell’ipocrisia del voler riaprire le palpebre a tutti i costi, pur sapendo che per gli occhi ci vorrà ancora un po’. L’ultima strofa è una spremuta di cuore con un finale strumentale che vale come una coperta tirata su fino alla fronte, per mettersi al caldo mentre fuori infuria la bufera. Il disco si chiude con una pregevolissima trasposizione in italico idioma di un brano della leggenda portoghese Vitorino Salomè, Si tu és o meu amor che qui diviene Se mai fossi e che vede la partecipazione anche dell’autore oramai 81enne. Rappresenta una sorta di ritorno a casa dopo tanto peregrinare, nella propria terra, quella dove “i campi son della gente e non ci sono padroni e schiavi”. Questo disco è un megafono ed un occhio di bue per chi non ha voce, per chi è fuori dai radar, per chi necessita di vista acuta per essere scorto, per i loro cuori puliti e alle volte ricuciti. “Storie di resistenza, di sentimenti profondi, di gente normale e della loro poesia”, come le definisce il frontman Roberto Colella. Un viaggio affrontato salendo su un pulmino Volkswagen, accomodandosi tra i sedili sul retro, sapendo che non saresti stato solo neppure un istante, riuscendo a trovare non la via meno breve ma la più soddisfacente verso la destinazione, tra stivali impolverati e cartine geografiche di posti che non avresti altrimenti conosciuto. La destinazione è proprio nella consapevolezza del doversi alzare in piedi, del non lasciare che la memoria si accorci. E allora TENERE CORE non è più una scelta, diventa un obbligo.
Credits
Label: FULL HEADS – 2022
Line-up: Roberto Colella (voce, chitarra acustica, pianoforte, tastiere, toy piano, sassofono, cuatro venezuelano) – Vincenzo Capasso (tromba, trombone, cori) – Alessandro Morlando (chitarra elettrica, cori) – Antonio Gomez Caddeo (basso, contrabbasso, susafono, cori) – Marco Salvatore (batteria, cori) – Michele Maione (percussioni) – Carla Grimaldi (violino, viola) – Pietro Santangelo (sassofono) – Massimo De Vita (mandolino, tastiere, percussioni, organetta, cori)
Tracklist:
- SOTTO CHI TENE CORE
- MIRELLA È FELICE
- CONOSCI THOMAS ?
- CORE ‘E LIGNAMME
- DORME CU’ MMÉ
- CHI SE VÒ BENE
- 14 AGOSTO
- ‘ A COSA JUSTA
- SE MAI FOSSI
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