I piedi ben saldi su una scogliera a strapiombo sul Mediterraneo. Scrutando con attenzione verso l’orizzonte e prestando l’orecchio a sonorità e richiami a metà tra muezzin e chezzan, lì stagliati fieramente come baluardi della migliore fusion tra elettronica, dub, reggae e melodie del sud del mondo, potremo scorgere gli Almamegretta che ci portano in dono questo lavoro, Senghe, pubblicato da The Saifam Group. La produzione artistica di uno dei maghi del dub/reggae europeo, Paolo Baldini, riesce a vestire queste undici tracce con abiti di ricercata raffinatezza su di un corpo narrativo e lirico, che come da tre decenni oramai, avvolge, denuncia, accarezza, ricuce e sputa senza mezze misure. Come da un buco della serratura prendiamo luce da queste “senghe”, in italiano crepe, ferite dal sangue invisibile ma bollente, che appaiono sul muro. Muri intesi come barriere, ostacoli alla comunicazione, separazioni tra i popoli e spesso anche tra singoli individui all’interno dello stesso ambiente, a cui si contrappone la possibilità di luce, di apertura e confronto regalata da queste fessure. Per dirla con le parole di sua maestà Leonard Cohen, citate dallo stesso Raiz, “c’è una crepa in ogni cosa, è così che entra la luce”. Un trentennio di storia di questa band, da sempre innovativa e sempre un passo avanti rispetto ai tempi, in questo album trovano una equilibrata crasi tra esordi e maturità. A tratti si viene piacevolmente riaccompagnati attraverso atmosfere soffuse da club underground di fine anni novanta, muovendosi su nuvole di fumo denso da palco luminoso, mentre i bassi iniziano a picconare la colonna vertebrale imponendo l’inizio delle danze. Per altri versi si viene schiaffeggiati dalla velocità dei pezzi tagliati uno a tre tra elettronica e ribellione. La voce cavernosa di Raiz conduce su tappeti leggeri in posti assolati come il deserto del Negev, con la fronte arsa dai gradi impazziti e dove sentirsi lontani da ogni cosa. Dal pericolo, dall’acqua, dalle catastrofi, dal tempo, dal rumore, dalle farse. Dove il sole si abbassa per farsi applaudire, quasi inchinandosi senza avere nulla intorno. Poi con cambi di scena repentini , vibrando per un vento che è quasi una carezza, le sue corde ci fanno atterrare in una Bristol da considerarsi ancora oggi come la tabellina dell’UNO, qualcosa che non si può non conoscere. Il disco si apre con Figlio, primo singolo estratto che inonda con un sound acido, tagliente e distorto come lame ad agire sulla pelle. A creare rivoli di quel sangue che non sempre è appartenenza. Perché il sangue capita e non si sceglie, e non esistono legacci ad ammansire le distanze siderali anche tra chi si somiglia. Storie di vite sotto lo stesso tetto, perforato da buchi mai rattoppati, che corrono veloci e scollegate su rette sghembe, quasi una battaglia tra lancette ed orologi digitali. Movimenti meccanici a segnare il tempo contro il contare come unico modo per intuire quando scatterà la nuova ora. Tra le dune polverose il cantato del carismatico frontman si fa strumento ancora più sofisticato per restituire atmosfere da migrazione sofferta in Homo Transient. Gli accenti del sud del mondo come segno di resa al fatto che le cesoie pronte a tranciare le radici sono sempre saldamente nelle mani dei più forti. Allora corse a perdifiato per arrivare dinanzi ad una porta serrata, tra integralismi dei cannoni contro bandiere bianche, bazooka contro mani tese, con nervi e muscoli tesi ed allenati per saltare, perché “addò ce sta nu muro l’aggia scavalcà”. L’elettronica di Toy ci sputa addosso il disagio per le vessazioni a cui il pianeta è sottoposto, nell’incosciente convinzione che esista un piano B. L’invito a non giocare duro se poi non si è in grado di riparare il giocattolo scoppia come un passaggio di consegne tra mani sporche e maniche da rimboccare. Per cercare di salvare il salvabile, smettendo di guardare l’orologio ogni ora dimenticando di concentrarsi sul calendario, fino a perdere di vista il domani accecandosi sull’oggi che passa alla velocità della luce. L’abbraccio al compianto Fausto Mesolella si concreta nella struggente poesia di ‘Na stella, incartata in una elegantissima confezione sonica che non la imprigiona, anzi la fa brillare con le sue pulsanti venature reggae e la delicatezza di un incipit che protegge come velluto sulla ghiaia. Le giornate amare rese tali da una sillaba sbagliata, idilli scappati via facendo spazio a nuovi cerchi sui calendari che non lasciano scampo ai malinconici. Nessun azzardo per le croci segnate come spartiacque. Pagina bianche che si sa, torneranno a curvarsi di inchiostro, dopo aver visto nuove strisce di terra della catarsi, ad un passo dagli occhi, ad un braccio di mare da quel cuore “chiuso in petto per dispetto”, tra distese di non-comunicazione non attraversabili a remi. Affiora subito dopo Ben Adam, che in ebraico moderno sta ad indicare “la persona che compie le cose giuste”. Beat arrabbiato che urla il netto NO a tutte le storture che terminano in ISMO, in un mondo oramai prossimo allo scisma “if we don’t kill the hatred”, mentre in sottofondo tornano sulla lingua le parole di Wilde che ci ricorda “che non c’è niente di male in ciò che si compie, ma c’è qualcosa di cattivo in ciò che si diventa”. La bisettrice del disco è Senghe, pezzo che dà il titolo all’album, dalla incredibile capacità di scavare crepe nelle viscere con un suono che percuote, da sempre marchio di fabbrica della formazione napoletana. Le crepe che sono finestre oltre l’ostacolo, dove la luce è meno accecante, quasi solletico, di quelli che fanno sorridere ad occhi stretti, mentre si accetta il vantaggio che la strada offre senza troppe spiegazioni. Ponti levatoi che torneranno scivoli ben levigati. Che l’attesa è una trincea codarda, si sa. Ma pure “sotto a ‘sta guerra, nu sciore cresce sempe”. La successiva traccia è Make it work, una esortazione a ricomporre le cose anche quando tutto sembra invisibile come acqua passata evaporando. Come dichiarato da Raiz, questo pezzo nasce come incoraggiamento alla moglie in guerra contro il cancro, una mano stretta forte per aggiustare quello che si decompone, per farlo funzionare ancora, anche se la fatica può rendere madidi più di Abebe Bikila mentre sfrecciava a piedi scalzi sotto il Colosseo nel 1960. Gli idiomi si attorcigliano partorendo discese e vicoli ciechi e spiazzando come una finta del Pocho Lavezzi. Miracolo fotografa l’insoddisfazione generata dall’aspirare costantemente il mezzo vuoto dal bicchiere, lasciando il nettare sul fondo. Tenendo conto della diretta proporzionalità tra intensità dei vuoti e tempi di espiazione. Della inversa proporzionalità tra quantità di ferite e voglia di avere nuove cicatrici. Sensazioni da tiratore scelto arrivato al poligono per poi accorgersi che il caricatore è privo di munizioni. E allora fughe, che non sono altro che scelte obbligate a cui diamo un nome un po’ più melodrammatico. Sulo ci fa vedere in filigrana l’esistenza spoglia di chi non ha scelto il bene. Abbandonato anche da quel Dio a cui si rivolge spesso attraversando con gli anfibi l’ultima spiaggia della preghiera, un ponte di legno affrontato quando ha già iniziato ad andare in fiamme. Perché peccare non è fare il male. Il vero peccato è non fare il bene. Lo diceva un poeta, anche lui abbandonato in spiaggia ad Ostia, da solo con il suo cuore scoppiato. E soli si rimane sommersi sotto spesse coltri di livore urbi et orbi ad imbrigliare le membrane vitali, come cormorani sotto il greggio di un disastro ambientale, come ordigni inesplosi dimenticati sotto terra da conflitti mondiali. Reminiscenze che trasportano all’altezza della metà degli anni novanta non appena parte la successiva Water di Garden, con un attacco che strizza l’occhio alla tomb stone Nun te scurdà, qui innaffiata da una tenera consapevolezza dell’importanza di lasciare tracce, prendendosi cura di ciò che si è seminato, anche se il cielo appare nero, convinti che oltre le nuvole ci siano ancora spicchi di azzurro e terra fresca per piantare. Una volta capito, come indica il poeta Franco Arminio che “la questione non è farsi spazio nel mondo ma sentire lo spirito che c’è in ogni spazio”. E che, trovato il proprio posto e la propria dimensione, l’uomo, proprio come l’albero, ha bisogno di acqua, di nutrimento. L’ultima traccia è rappresentata dalle pennellate minimali di ‘O campo con cui viene suggellata una ricomposizione delle fratture Terra-Uomo usando come narghilè della pace delle suadenti quanto impronosticabili chitarre blues.
È toccato attendere circa sei anni per poter avere finalmente tra le mani questo lavoro che dà acqua e fertilizzante ad una pianta dalle foglie multiformi e mai uguali a sé stesse, rigogliose e robuste, e che rappresenta la storia oramai trentennale degli Almamegretta. Anche se passata attraverso allontanamenti fisici, cambiamenti della formazione, silenzi, nuovi percorsi, premi in bacheca (a tal riguardo scintillano le tre targhe Tenco ricevute finora), fino ai ricongiungimenti che hanno il sapore della naturalezza che solo le cose GIUSTE sanno avere. Per chi, orgogliosamente boomer come me, ha vissuto gli anni della genesi di un movimento che ha sconvolto e vivacizzato in maniera commovente la scena partenopea di fine millennio, questo nuovo squillo assume la grazia di campane suonate a festa che piano piano si elettrificano ed elettrizzano. Ossigeno buono a dare la gradevole sensazione di camminare sulle nuvole in un tempo che credevi passato, con l’aria spersa di chi pensa di essere salito sull’aereo sbagliato. Salvo poi trovarsi in un paradiso tropicale in cui era stato da ragazzo. Nessuna repetita, gente. Si chiamano tratti distintivi. Quelli che rendono riconoscibili e coerenti i percorsi, immacolati dalle mine dell’autotune e dai biascicamenti verbali dei tempi attuali. Senghe è un’anima gemella eterozigote di Sanacore o di Lingo. In queste crepe infiliamo gli occhi a cercare stelle comete da seguire e bagliori da cui farci impressionare, correndo in scioltezza tra vicoli e casbah, tra idiomatismi da world music ed efficaci atterraggi sul dialetto. Perché non lavagne, ma pozzi di raccolta. Ecco quello che siamo. E che queste fiere Anime Migranti sulla cerniera di un Mediterraneo a volte padre e a volte assassino provano a ricordarci ancora una volta.
Credits
Label:
THE SAIFAM GROUP – 2022
Line-up:
RAIZ – voce
PIER PAOLO POLCARI – tastiere, programming
GENNARO “T” TESONE – batteria
PAOLO BALDINI – basso, programming
FEFO FORCONI – chitarra
ALBINO D’AMATO – live engineering
DANILO TURCO – chitarra, programming (tracce 1, 6, 8, 9)
MATTEO DA ROS – chitarra (tracce 4, 7, 9, 10)
ADRIANO VITERBINI – chitarra (traccia 11)
LUCA MASSERONI – batteria (traccia 5)
ALE SORESINI – batteria (traccia 7)
PIPPOBURRO – programming (traccia 5)
MIMINA DI MURO – cori (traccia 4)
Tracklist:
- FIGLIO
- HOMO TRANSIENT
- TOY
- ‘NA STELLA
- BEN ADAM
- SENGHE
- MAKE IT WORK
- MIRACOLO
- SULO
- WATER DI GARDEN
- ‘O CAMPO
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