Tepori da quasi inverno, sfidare la pigrizia che subdola tenta di asfissiare la mediana dei quaranta. Non dargliela vinta, non senza combattere, coltello tra i denti. C’è da reindossare i cargo e calzare scarpe comode, per riavvolgere nastri corsi via senza rispettare i doppi triangoli in avanti, senza aspettare alcun delay. In un attimo ti rimetti addosso i tuoi vent’anni e li difendi come un sito dell’Unesco dagli attacchi infami del tempo che vorrebbe mettere tutto in naftalina. Era l’inizio del secolo. Erano posti che furono la cornice in cui sentirsi piccoli ma in movimento. Posti che non ci sono più, persone disapparse, almeno dal mio microcosmo, vittime o carnefici di scelte fatte o subite. Era l’inizio del millennio quando una diagonale strana mi fece incrociare la strada dei Verdena, quasi coetanei, geograficamente ai due poli quasi, intimamente a camminare in equilibrio sullo stesso filo traballante dell’inquietudine. Tra Napoli, Bagnoli e la Bassa padana, tra vortici di suono potentissimo e passi d’addio silenziosi con le loro scie livorose. Certa musica fa questo, ti riaggancia al passato per mostrati di essere più forte di tutto, resistente e presente perché tutta questione di attitudine, di voglia insaziabile di fluire.
E così sulla coda di un novembre che cede il passo arrendevole, rieccoci dopo un tempo che mi è parso interminabile ed indefinito, a piegare il collo verso un palco. Con questi tre ragazzi che pestano ancora come carcerati a cui hanno gettato la chiave. Roberta Sammarelli, una bassista scesa da un altro pianeta a dare la paga saltellando senza affanni alle contemporanee sgallettate con il nastro isolante addosso; Luca Ferrari, un batterista inarrestabile tutto estro e potenza; Alberto Ferrari, una voce giovane in ogni senso, fatta di suoni da plasmare su tutto, storti, folli, graffianti e spesso dolcissimi… un istrione tra chitarre, tastiere e meraviglie d’altri mondi di violenta purezza.
Il tempo ci travolte tutti, così stavolta sono senza il Grande Maestro G al fianco a comporre una squadra invincibile di talent scouts immarcabili nei decenni che furono, ma con nuovi battesimi del fuoco a cui fare orgogliosamente da padrino. Giù le luci, si torna a sentire il sangue che spinge fiotti anche nei polpacci preda della colpevole disabitudine al molleggio. Guardo dietro di loro, assorbendo dalla luce flashs dalle tonalità che derubano le sacche delle lacrime mie, rendendomi un negativo più ricco, senza chiedere scusa né ringraziare. La prima parte del concerto attinge dall’ultimo Volevo magia, tirando fuori una botta ben piantata proprio in pieno costato, a dire che dopo quasi venticinque anni, prole varia regalata al pianeta e migliaia di tavole calpestate, si può restare inconfondibili e confortanti. Un disco che ti fa sedere su uno di quei tori meccanici che all’inizio fanno girare un po’ la testa ma a cui poi ti aggrappi con tutte le forze e gli arti per non scenderne più. Inizio sferzante con Pascolare e Crystal Ball a mostrarli così granitici, grezzi eppure sofisticati, isterici e furiosi, vomitati dagli anni 90 con il dono unico della leggerezza. Coinvolgente ed esplosivo il gioco di luci sul palco ad innestare una chiave sinestetica nella serratura di un pubblico arso dal desiderio di tornare ad essere tribù in un rito finalmente rinnovato. Scorrono maestose Dialobik e Chaise Longue. Guardo il tetto adesso, cercando di perforarlo con lo sguardo affinché tutta questa bellezza non rimanga solo a noi che siamo qui dentro. Che vada ad esplodere fragorosa in ogni posto che lo meriti, sotto un Cielo super acceso che brilla in ogni centimetro quadro, a tranciare e clampare aorte da guarire creando riconoscenze. Ogni ruggine è scrostata via dalle sensazioni in pochi attimi, a ribadire che tocca resistere, e loro lo fanno, togliendoci i chiodi dalle mani, senza antitetaniche, dandoci da bere aceto sulle labbra, senza neanche la spugna, prima di passare a servire boccali di ambrosia con strali immortali come Viba o Luna. “Se odiare è un crimine il prezzo è uguale”, ancora immagini che prendono fuoco nonostante le avessi annacquate, spingendole sempre un paio di metri più in fondo. Nel frattempo un pinball di pupille ad inquadrare dinamiche sotterranee, ma evidenti come radici esplose sotto l’asfalto. Con Alberto a picchiare sui tasti per Scegli me (un mondo che tu non vuoi) in disequilibrio stabile ad affacciarsi su campi lisergici di oltremanica mentre, as usual, la visuale davanti a me viene minacciata dall’alternarsi della nazionale lituana di basket e vari giovinastri emuli di Don Lurio, ad improvvisare coreografie catturaspazio e pazienza. Resisto anche a questo, angoli della bocca incurvati a dare genìa ad un sorriso compiaciuto nel pensare di essere passato in dodici ore da un convitto pronto per le orazioni ad una prateria sonora, da Gerusalemme a Gomorra, quasi un Clark Kent senza cambio d’abito. Gli inserti acustici, anticipati dal cambio degli strumenti, irrorano di gradevolezza il cranio, come microflussi ematici a supporto di un cervello scomodato dalle vertigini insalubri della routine. Menzione speciale per Certi magazine che scava un solco profondo come una faglia proprio al centro del concerto, proprio al centro dello stomaco, lasciando senza difese, con la guardia abbassata, mentre il bombardamento che chiude lo show straccia pagine ed anni di calendario con una Valvonauta sanguinaria e la firma della title track dell’ultimo lavoro. Brilla di una resa emozionante Sui ghiacciai, tra i brani più riusciti di questo ritorno discografico che ha riportato il rock ad un ruolo di primo piano, tra copie vendute e date sold out.
Volevamo magia, ed è arrivata come pioggia di monete d’oro sulla Danae di Tiziano. Live, finalmente ancora. Con la clorofilla nelle gambe piantate al suolo. Con la voce andata, a ricordare la bellezza di essere vivi.
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