Il bivio è di quelli giganteschi, di quelli davanti a cui, per scegliere quale porta buttare giù a spallate incrociando le dita, non esistono monete ammaccate da lanciare. Allora l’unica via per il movimento è quella dettata dalla scala del rimorso con le sue tacchette profonde a scandire il livello di irripetibilità dell’evento ed il conseguente convincimento bruciante di aver perso qualcosa. In effetti non ricordo, da quando ho messo piede in questa vita, l’ultima volta in cui il Napoli abbia giocato di venerdì. Con la Juve poi. Da primi in classifica addirittura. Ma le Brave Ragazze di Flo intonano canti da sirene che mi fanno volteggiare sul mio asse emozionale in maniera troppo evidente per essere ignorate. Timone in direzione teatro Trianon, ore 21, in una città seduta su divani comodi a dialogare con schermi multipollici tirati a lucido come ai tempi del profeta di Villa Fiorito. Atmosfera da 31 dicembre sera, silenzio irreale ed acidità da tensione pre-conflitto nucleare nell’aere, mentre ci avviciniamo ad un avamposto di cultura finalmente restituito al popolo. Niente anfibi ad affrontare la mota da festival centroeuroropeo stavolta, ma suole lisce ad accarezzare il velluto rosso di questa bomboniera di inizio novecento. Sconfitto con una banderilla nella schiena il sabotatore interno che mi avrebbe reso avventuriero che rimane a casa, usando le parole di Franco Arminio. La sorpresa non del tutto inattesa è nel non assistere a nessuna scena da ingresso alla proiezione de La corazzata Potemkin, nessuna radiolina tra i denti e neppure donne incinte di un nove pollici a popolare la platea. La via del bello è ancora, Deo gratias, visibile agli illuminati che scelgono di percorrerla dopo aver lanciato un ultimo sguardo alle tacchette sul muro di cui prima. E allora spalancato il sipario appare un triangolo perfetto con Cristiano Califano e Michele Maione ai lati di una incantevole Flo intenta ad accarezzare il suo ukulele, quasi fosse un pargolo da consegnare alle braccia di Morfeo. Ferma zitella, canto tradizionale salentino che fotografa l’istante esatto in cui le occasioni vanno perdute, ad indicare che la solitudine non è mai una scelta ma un incidente che non comporta riscatti interiori né primati morali per dirla con Alessandro Piperno. Arriva addosso come una secchiata di acqua gelida Per guardarti meglio, la storia di Ilde Terracciano, sposa bambina che ha conosciuto troppe mani pesanti e piccole menti, masticata e sputata nel mondo senza regole e difese, con la complicità colpevole di un territorio e di una società maestra nell’utilizzo della tecnica limacciosa dello straniamento rovesciato. La magica intesa del trio sul palco genera un tepore invitante dentro cui viene da tuffarsi senza esitazioni, lasciandosi baciare dalla luce intima da quadro fiammingo che ne riviene. Scorrono le parole de La Lupe, regina del soul latino, cubana esule tra il Messico ed il Bronx, che qui viene riproposta in uno dei suoi inni disperati, La Gran Tirana. La prospettiva inversa di Maddalena, sirena che sceglie di essere donna nonostante questo le costi la consegna al silenzio del mondo che preferisce le farse in maschera alle nudità sincere e scomode, ci accomoda ai tavolini di un locale sudamericano che avrebbero potuto essere in una qualsiasi delle pieghe sdrucite delle nostre province con lo sguardo retroverso. Il nigeriano ed il georgiano hanno nel frattempo assestato le prime due batterie di cinque dita sulla faccia terrea della Vecchia Signora. Ma è ancora troppo lunga la partita, dannazione. Il ricordo delle Madonne che ci hanno accompagnato, facendoci da scudo e sospinte dalle voci arcigne delle nonne nei frame in bianco e grigio della nostra memoria, introduce Furtunata. Sei corde, che sembrano arrivare da una porta lasciata aperta dalle parti di Vicoletto Donnalbina, propagano aria di festa mentre Flo, Grazia Plena, è madornale nel controllo di una voce che arriva dove vuole per poi decidere di atterrare soave proprio vicino all’orecchio per completare questa ninna nanna meravigliosa, a ribadire che CASA non è dove sei nato, CASA è dove arriva una voce a baciarti se la fronte scotta e trovi due braccia a consolarti sempre. A ricordare che si può essere figli anche venendo da un altro corpo, nascendo dalla punta del cuore di chi sceglie di crescerti. A suggerirmi, delicatamente, quello che andrebbe fatto, abbandonando gli indugi. Le perle in questa serata arrivano una dietro l’altra, a riempire tasche e grembiuli di chi è arrivato al fiume immergendo le ginocchia nell’acqua senza avvertirne il gelo neppure un istante. Ed allora il tango teatrale e dispettoso di Boccamara passa il testimone alla Milonga con sauces, intensa traduzione di un testo di Leda Valladares, ricercatrice e musicologa argentina del Tucuman, una vita spesa ad innaffiare memoria e che finì i suoi giorni afflitta dall’Alzheimer a dare un colpo di spugna ai ricordi. Con la muscolare e struggente Maldigo del alto cielo di Violeta Parra, “la Santa di pura creta” come la definì Neruda, altra figura di spicco nella tradizione popolare cilena, viene urlata quasi al megafono sofferenza, come quella di un istrice trafitto dai suoi stessi aculei, mutuando una immagine evocativa presente nel Pompeo di Andrea Pazienza. In the meanwhile, iniziano in sala a circolare, scatenate, voci poco plausibili. Tipo che siamo 5 a 1. Per scrupolo e solo perché l’informazione è eclatante ed in quanto tale, da verificare attentamente decido di dare luce per 15 secondi al cellulare. Ed in effetti. La perfezione di questa serata è più di una ipotesi in divenire. Si torna al caldo a +10 dalle zebrette. Connola senza mamma è un delicato omaggio alla migrante eterna Gilda Mignonette, cantante icona di inizi novecento per le milionate di italiani andati a cercare sorte in America, morta a poche ore di viaggio dalla sua amata Napoli a bordo del transatlantico che la stava riportando dove aveva chiesto di completare la sua vita terrena. Il coraggio di Rosa Balistreri e la sua vita in fuga vengono raccontate da Flo prima di intonare Cu ti lu dissi, mentre la romanità della compianta Gabriella Ferri viene ripresa con la spumeggiante Me voi pe’ te. Entrambe storie, drammatica la prima e quasi grottesca la seconda, di corteggiamenti ingombranti, più simili ad accerchiamenti che ad abbracci. Si spalancano le porte del convento delle Malemaritate, dove manca il pane ed ancora più la vergogna per indulgenze vendute, per le mani non afferrate ad un centimetro dal baratro di una regressione evitabile, ma a conti fatti più salvifica del riparo proposto e ben camuffato. Che se Dio è di poche parole e le peccatrici hanno udito fine per capire da che parte stare, ogni intermediazione può essere uno sgambetto.
Un disco nato prima sul palco e poi in sala e che nella sua placenta, tra assi e sipari, trova il suo climax assoluto. Come questa sera in cui è stato davvero difficile stare seduti e non abbandonarsi ad una standing ovation perpetua. Osservando rapiti lo scorrere sul muro delle foto segnaletiche di queste donne che tramutano espressione una volta al secondo, per essere accolte poi da cornici d’argento senza pugni barocchi, semplici ed eleganti, a renderle familiari come irrinunciabili presenze da comodino. Come, dopo aver schiacciato il pedale destro del pianoforte, si aprono e si svelano parti di pentagramma e di universo altrimenti inesplorate, qui le Brave Ragazze vengono tirate fuori dalle loro prigioni e diventano amiche del cuore di chi ascolta, con i loro odii invettivi, le loro difese eroiche, i loro amori disperati, ad abitare la poesia malinconica di case troppo strette o distese troppo solitarie. Perchè questo fanno le Brave Ragazze. Restano dove hanno deciso di stare, guadagnandosi le maiuscole.
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