Uscito il 24 febbraio per la Visage Music, Si ll’ammore è ‘o ccuntrario d’ ‘a morte di Raiz, al secolo Gennaro Della Volpe, ci consegna a vent’anni dalla scomparsa di Sergio Bruni, icona e padre putativo di generazioni trasversali di artisti partenopei, un’antologia curatissima e che attinge principalmente dalla vasta produzione nata dal lungo sodalizio con il poeta Salvatore Palomba. Una incursione sentita e quasi naturale in un territorio che ha rappresentato, per sua stessa ammissione, l’humus da cui sono spuntati i germogli ed al contempo in cui affondano le radici dell’uomo Raiz. Il rispetto religioso del repertorio di sua maestà Bruni ed il conseguente timore, nel riproporre le dieci tracce prescelte, di cimentarsi con qualcosa di gigantesco ha reso la gestazione di questo lavoro decisamente lunga; gli indugi sono stati rotti grazie all’endorsement proprio del poeta Salvatore Palomba che con un buffetto verbale, simile in realtà più ad una carezza, ha consegnato le chiavi e il pedigree necessari per avviare il parto ed iniziare il viaggio. E allora dismessa l’abituale armatura elettrodub, con un cambio di stagione rimandato il giusto tempo, ecco venire fuori dall’armadio un avvolgente completo nero da cantante di giacca quasi. Ma di alta sartoria, sia ben inteso. Al suo fianco la compagine barese dei Radicanto con i liuti di Giuseppe De Trizio ed Adolfo La Volpe, le percussioni di Francesco De Palma, la fisarmonica di Giovanni Chiapparino ed il contrabbasso di Giorgio Vendola, in una liaison già ben sperimentata e dai frutti entusiasmanti. Con Napoli doce e amara partono cristallini i versi che dipingono un manifesto attaccato con chiodi di fiele e sovrapposto alla cartolina, tutta sentimentalismo e colore da occasione, dinanzi alla quale ci si incanta troppo spesso a bocca aperta, attribuendo ad un mistero inspiegabile questo convivere sullo stesso rigo del bene e del male. Intesa da molti come il reale punto di discontinuità tra la Napoli che fu e quella che sarebbe stata, al punto da ritenerla l’ultima canzone classica e la prima canzone moderna napoletana, Carmela del 1976, è una struggente dedica all’amata Partenope, che qui assume i contorni di una splendida fanciulla restìa ad abbandonarsi all’amore inteso come il contrario della morte, finita nelle mani sbagliate, denudata, stuprata ed irrisa dal malaffare, dalla camorra e dal disinteresse. Una Napoli che è al contempo “rosa, pietra e stella”, a simboleggiare la dolcezza, la testardaggine e la luce che è in grado di emanare e che permane l’unica via percorribile verso la rinascita auspicata in quegli anni grigi. Non è un caso che questa canzone sia perfettamente contemporanea ad un altro inno generazionale, quella Napul’è che gridava l’urgenza di far emergere i colori, e che richiami per tematica quella Nun te scurdà degli Almamegretta, successiva di alcuni decenni ma vicinissima per tematica. Interpretata anche da Mina, Amaro è ‘o bene è una disperatissima cronaca degli istanti finali di un sentimento senza domani, con una fisarmonica annunciata e che entra in scena alla seconda strofa a cospargere di rimpianto l’aria. Nella amarissima scoperta di non appartenersi più, con i baci andati, con l’amore che è fuggito via con improvvise accelerate, scatenando rincorse con lacrime stampate in viso dal presentimento della fine. Nel titolo ossimori come granate gettate da un grattacielo e che esplodono prima di toccare terra. Come mettere nella stessa frase, a guardarsi in cagnesco, verbi difettivi e verbi sovrabbondanti, così differenti eppure così necessari ad esprimere la complessità sanguinosa dei sentimenti. In una sorta di ideale sequel della traccia precedente, arrivano le note di Che lle conto, uno struggente tango Piazzolliano a spargere le ceneri di un amore terminato con troppi punti interrogativi e nessuno esclamativo, nella gelida evidenza che “more ‘o munno pe chi perde n’ammore”, ancor più quando le certezze di una parte, per dirla con Andrea Pazienza, si “approfittano della vostra confusione per passare un colpo di spugna su un milione di frasi e su miliardi di parole d’amore”, condannando l’altro a prenderle atto ed accettare le risposte da dare ad occhi-cuore-mani che impietose continuano a domandare. ‘A fata d’ ‘e suonne con il testo di Marotta, è una serenata basculante alla donna amata, quella Maria dalla bellezza abbagliante, partorita dai sogni, immaginata ed attesa prima ancora di prendere vita e che ammutolisce per il desiderio generato come un accidente, un vizio, una mina vagante. Na Bruna racconta di una bellissima ventenne che tiene fede al giuramento fatto al suo amato pescatore, suggellato dal segno della croce bagnato dall’acqua di mare. Un giuramento che non può essere tradito, ignorando la corte di un ricco forestiero, a ribadire che il cuore sceglie di percorrere sentieri sterrati e tortuosi, piuttosto che strade patinate e pianeggianti pur di continuare a battere all’impazzata. Che miracolo stammatina nasce dall’osservarsi intorno, come fosse la prima volta al mondo, anche per chi ha fatto sul serio con la propria vita. Come quando ti senti picchiettare sulla spalla a risvegliarti. Istintivamente ti volti dal lato che si rivela sbagliato, dove non c’è nessuno, ma percepisci comunque netto il conforto di quel tocco a proteggere ed allontanare tutto il grigio. A ridare senso di appartenenza, a far veleggiare l’anima verso il miracolo. Anche solo guardando le onde, consapevole che “frequentando il futuro nella vita di ogni giorno, non si può non incorrere alla fine, come in un’eresia, in una incredibile semplicità”, per usare le parole di Pasternak. Di stampo quasi Eduardiano, la denuncia in bianco e nero di Napule è mille ferite rimanda elasticamente, come cellula costitutiva, alla indimenticata Pe’ dint’ ‘e viche addò nun trase ‘o mare degli Almamegretta, per atmosfera e voglia di riscatto. L’immagine della fogliolina, che nasce randomica tra le crepe di ciò che è abbandonato, non riesce a scardinare la rassegnazione per ciò che appare graniticamente immutabile ed è quasi un segnale di resa incondizionata a cui si contrappone la speranza flebile di un risanamento che possa lavare le pietre e cancellare il male. Il fado malinconico di Bella, sì tu venisse int’a sti braccia intinge la penna nell’inchiostro denso della devozione per una donna che genera fiumi di innocenza e buone intenzioni. Il periodo ipotetico scava vorticosamente allestendo scenari confortanti, accompagnato dalla voce di Raiz che si fa ancora più vibrante, emozionata ed emozionante come solo ciò che tocca nel profondo del proprio vissuto riesce a fare. Con lo sfondo delle barricate del ‘43 che resero Bruni claudicante per sempre dopo uno scontro a fuoco con i nazisti, si apre il sipario su un Palcoscenico oleografico e quasi caricaturale, una finestra su una Napoli pittoresca, forse anche troppo, con echi rurali messi in infusione con spore arabeggianti e setacci spagnoleschi. E che diventa un set a cielo aperto, nel quale scene di vita di quartiere si sviluppano come atti di tragicommedia carnevalesca senza primi attori, ma infinite comparse. Raiz abbraccia Sergio Bruni intimamente, come se fosse seduto in prima fila nello storico teatro domestico di Corso Vittorio Emanuele. E lo stringe forte in un rispettoso omaggio, atteso per anni, a dare ulteriore scintillio ad una figura già di primo piano, edificata in 30 anni di carriera con i sodali degli Almamegretta e parallelamente nei vari intermezzi solisti. Incontrandosi in una Napoli senza tempo. Perché eterna nelle sue contraddizioni, così come nella meraviglia che è capace di generare e di fronte a cui il pudore e lo stupore divengono chiavi di accesso essenziali ed imprescindibili per mettere le mani su questo regalo incartato con cura geometrica, dopo aver scelto la scatola più adatta, senza abbandonarsi alla comodità di un buono Amazon da inviare via mail. È un imperativo artistico la genesi di questo disco che già dai primi ascolti si presenta come il sale saporito che resta dopo che l’acqua del tempo è evaporata naturalmente, senza stare sul fuoco. Il rispetto per l’opera del maestro Bruni non diviene soggezione perché se è vero che non si portano i cani in chiesa, qui concavità e convessità di artisti che hanno respirato epoche contigue compongono rotondità commoventi, in una continua sovrapposizione di intonaci e pigmenti diluiti che diventano affresco di una Napoli tecnicamente immortale.
Credits
Label: VISAGE MUSIC – 2023
Line-up: Raiz (Voce)
Radicanto:
Giuseppe De Trizio (Chitarra classica, arrangiament) – Adolfo La Volpe (Chitarra portoghese, chitarra classica) – Giovanni Chiapparino (Fisarmonica) – Francesco De Palma (Cajone set, riq, darbuka, udu, caxixi) – Giorgio Vendola (Contrabbasso)
Guest: Daniela Mastrandrea (piano in ‘A fata d’’e suonne)
Tracklist:
- Napule doceamara
- Carmela
- Amaro è ‘o bene
- Che lle conto?
- A fata d’e suonne
- ‘na bruna
- Che miracolo stammatina
- Napule è mille ferite
- Bella si tu venisse ind’a ‘sti braccia
- Palcoscenico
Link: Sito Ufficiale
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