Home / Recensioni / Larks’ Tongues in Aspic – King Crimson

Larks’ Tongues in Aspic – King Crimson

KC larksLe lingue di allodola in gelatina segnano, due anni dopo l’eccezionale Islands, il ritorno dei King Crimson, reincarnatisi per la seconda volta in appena quattro anni di attività, il 23 marzo del 1973. Unico fondatore e signore incontrastato del marchio, Robert Fripp rinnova completamente la formazione arruolando un manipolo di virtuosi suoi pari: Bill Bruford, già batterista degli Yes, John Wetton, bassista-cantante dei Family, il paroliere Richard Palmer-James, dai Supertramp, il percussionista Jamie Muir e il violinista David Cross. È una delle opere più ambiziose concepite dal genio di Fripp, nucleo incandescente di una magmatica iperattività che lo vede attivo con il nuovo assetto dei King Crimson, come produttore, solista, collaboratore di dischi epocali lungo il corso dell’intero decennio (Heroes di David Bowie, giusto per dirne uno), fino a reincarnarsi ancora una volta in un irriconoscibile Re Cremisi, malato di eterno ritorno e di cambiamento costante. L’album si apre e chiude con le due parti della lunga title-track strumentale, una suite di oltre venti minuti articolata in vari movimenti che riprendono esplicitamente le ardite esplorazioni compositive di Stravinskij e in particolare la celebre Sagra della Primavera (1913), che legava la tradizione folklorica russa a una nuova concezione melodica dinamicamente connessa alle multiformi variazioni del ritmo, per la prima volta sostegno di un’opera di carattere sinfonico, in un quadro armonico politonale. Fripp ne è chiaramente innamorato e fa propri gli elementi principali contaminandoli con le avanguardie free jazz e l’acida elettricità del rock, senza dimenticare del tutto il lirismo epico dell’album d’esordio. Supportato al meglio da una band stellare che si muove nel territorio dell’improvvisazione più ardita come un unico organismo che ansita, scalpita, urla e sussurra con l’energia di una bestia primordiale. Larks’ Tongues in Aspic, part one comincia con le percussioni ancestrali di Jamie Muir, ideatore del titolo, una marimba che tesse un tappeto irregolare di gusto caraibico, come sassolini che rotolano sulla riva mossa da una leggera risacca; un tintinnio ne accelera il ritmo, tra l’eco distante del violino fischiante di Cross, mentre una fitta ma leggera pioggia di sonagli argentati annuncia la tempesta che si profila all’orizzonte. Come nell’inizio di Valerian di Luc Besson (2017) il purissimo pianeta Mül diviene vittima incolpevole dell’immane battaglia che si combatte oltre la troposfera, così le lunghe note distorte della chitarra di Fripp sull’ascendente e inquietante ostinato del violino annunciano le terribili deflagrazioni che squarciano l’aria in assalti all’unisono di distorsioni assordanti. Ne scaturisce una frenetica divagazione free jazz, con la sei corde di Robert che si avvita in una girandola di ossessione virtuosistica che contrasta violentemente col timbro grezzo, proto punk, che informa la ruvida improvvisazione. Poi tutto si placa e il suono della campagna d’Albione prende il posto del caos sotto forma di violino melodioso e bucolico, che non a caso è stato talvolta accostato a The Lark Ascending di Ralph Vaughan Williams, benché David Cross abbia smentito una derivazione consapevole. Dopo l’intermezzo d’archi si rifanno presenti le angosce di guerra, col loro devastante crescendo culminato nella drammatica esplosione finale, resa ancor più tetra dalle voci radiofoniche che ne accompagnano l’eco in sottofondo. La melodia si fa strada in forma di canzone nella seguente Book of Saturday, morbida e concisa ballata dalla complessa struttura arpeggiata, risposta britannica alle inusuali strutture e armonie della bossa nova, cesellata dal solo al contrario dell’elettrica e da un misurato violino ricco di pathos. Con Exiles, se si esclude l’introduzione di sinistri ululati e mugugni vibranti da cui sale un tema di lugubre potenza evocativa, si respira un’aria che richiama le maestose melodie dell’album di esordio dei King Crimson, specialmente per l’arpeggio cristallino di chitarra acustica, il solo che richiama I talk to the wind e il finale epico che cita esplicitamente quello di Epitaph. Con un ritmo fatto di brutali colpi di maglio, misti alle percussioni bizzarre di Muir viene introdotta Easy Money sviluppata su una strofa di accordi sincopati e appena accennati che al primo refrain viene sostituita da un ritmo dispari disorientante. Poi, dalle nebbie viene fuori densa la lunga coda strumentale retta dal drumming creativo e imprevedibile di Bruford e dal solido riff di basso di Wetton sul quale si dispiega cerebrale e acidula l’improvvisazione di Fripp, e si intravede netto lo sviluppo di tutto l’indie a venire, sulle due sponde della Manica, fino alla Tabula rasa dei CSI e oltre. Suona in tal senso premonitrice la risata di crudele sarcasmo che chiude il brano sfumando verso il ronzio paludoso che introduce la jam ossessiva The Talking Drum, basata su un unico accordo spostato ritmicamente di un ottava sopra e poi indietro, col volume che si alza ad ogni ripresa del ciclo, sotto il battito incalzante e inarrestabile di Bruford mentre  Cross e Fripp duellano in un territorio di atonalità e dissonanza disturbante e calamitica, in un crescendo che è vertiginosa caduta, fino allo schianto fragoroso prodotto da Muir soffiando violentemente dentro trombette da bicicletta. E da quel tonfo scattano gli accordi distorti e taglienti di Larks’ Tongues in Aspic, part two, che trasportano nell’epopea rock La sagra della primavera di Igor Stravinskij, sotto il segno di un continuo fragoroso moto ascensionale che è una surreale scala di Escher e getta le basi profonde di tutto il metal e crossover prodotto in seguito: il cambio di tempo esattamente a metà del brano con la chitarra che inverte il riff andando a collidere con la batteria roboante e raffinata di Bruford è un lampo di genio marchiato a fuoco nell’immaginario di Les Claypool e i suoi Primus, e di tutti gli esperimenti più arditi della generazione nu metal, giungendo con forza inalterata fino alle estreme arditezze di progetti come gli Zu o i Neptunian Maximalism.  Un influenza tanto duratura e trasversale che fa di quest’album dei King Crimson uno dei vertici assoluti della storia della musica.

Credits

Label: Atlantic – 1973

Line-up: David Cross (violino, viola, mellotron, flauto) – Robert Fripp (chitarra, mellotron) – John Wetton (basso, voce, pianoforte) – Bill Bruford (batteria, percussioni) – Jamie Muir percussioni, batteria)

Tracklist:

    1. Larks’ Tongues in Aspic, part one
    2. Book of Saturday
    3. Exiles
    4. Easy Money
    5. The Talking Drum
    6. Larks’ Tongues in Aspic, part two


Link: Sito Ufficiale
Facebook


Ti potrebbe interessare...

powder_dry_24

Powder Dry – Tim Bowness

Sperimentare, osare al massimo nei dettagli estremi senza mai perdere di vista l’accessibilità “pop” dell’ascoltatore. …

Leave a Reply