Suono in un tempo trasfigurato è un disco fuori dagli schemi, che risponde al desiderio di libertà e sperimentazione di chi ha sempre fatto della musica un’occasione di Bellezza. Vittoria Burattini, battito indomito dei Massimo Volume, e Francesca Bono, voce e chitarra degli Ofeliadorme, hanno unito una comune visione artistica in un progetto che affascina e conduce in un altrove onirico dove suono e parola si fondono nell’imperativo categorico della suggestione. Nell’era della scrittura che obbedisce alla velocità, dove la notizia si consuma in briciole di battute e titoli ad effetto, fermarsi per domandare e rispondere, senza scadenze e luoghi comuni, è talvolta, invece, ancora possibile!
Mi raccontate com’è iniziata questa avventura discografica così controcorrente?
Francesca: Nel 2021 una realtà bolognese di grande spessore, Home Movies, mi ha invitata a sonorizzare tre corti muti di Maya Deren, cineasta sperimentale d’avanguardia ucraina naturalizzata americana degli anni ’40. Avevo la possibilità di scegliere un’altra musicista e ho subito pensato a Vittoria, che oltre a essere una delle mie più care amiche è anche una delle mie musiciste preferite. Da lì è partito tutto, la sonorizzazione è stata un successo e abbiamo deciso di portare avanti il discorso realizzando un disco insieme. Maple Death Records ha subito sostenuto il nostro progetto e così è nato il nostro esordio discografico. Mi esaltava l’idea di fare qualcosa che si discostasse dalle esperienze pregresse sia mie che di Vittoria.
Suono in un tempo trasfigurato è già una dichiarazione d’intenti. Trovo che sia un titolo di elevata poeticità espressiva. Da dove arriva? Da quali suggestioni e da quali orizzonti?
Francesca: È un gioco di parole che rimanda al titolo di uno dei 3 corti di Deren, “Ritual In Transfigured Time”, e richiama il titolo della sonorizzazione. Oltre a rappresentare bene come ci sentiamo in questa fase storica, ha anche una valenza personale: gli ultimi anni sono stati per entrambe pieni di cambiamenti epocali.
Scegliere determinate possibilità di suono vuol dire definire il perimetro d’azione con il risultato paradossale di espandere gli spazi… Parlatemi degli “strumenti” in gioco…
Francesca: Deren incarna la figura della cineasta il cui stile si fonda sulla libertà artistica. In un saggio afferma che lo strumento più importante che chi fa cinema possiede è se stessa. Lo stesso credo valga nella musica o in altre forme di espressione. Ho preso a cuore indicazioni come: “The most important part of your equipment is yourself: your mobile body, your imaginative mind, and your freedom to use both” e con Vittoria le abbiamo traslate in musica. Il tutto in maniera molto spontanea, comunque, senza grandi discorsi pregressi. Cosa possiamo fare con due strumenti a briglie sciolte? La risposta è nel disco.
La voce si fa essa stessa suono oltre il vincolo del significato per colorare le atmosfere. Questa scelta è stata consequenziale alla direzione del lavoro oppure avevate chiaro da subito quale ruolo avrebbe avuto.
Francesca: Inizialmente non avevo minimamente considerato di usare la voce. Volevo realizzare qualcosa di prettamente strumentale. Poi, in sala prove con Vittoria, ho provato a renderla uno strumento per aggiungere un tono alla nostra palette di colori. E delle voci in particolare, quelle di The Ballroom, le ho aggiunte su suggerimento di Stefano Pilia, che ha registrato il disco, in un secondo momento. Volevo lasciare da parte la mia vena cantautorale e concentrarmi sulla musica, che da sempre muove tutto quel che faccio.
Cosa vuol dire oggi, per voi, non utilizzare testi ed esprimervi con un codice simile? Trovo sia molto labile il confine tra musica elitaria e musica immediata, per quanto paradossale.
Vittoria: Il mio percorso artistico è da sempre felicemente legato “mani e piedi” ai Massimo Volume, una band che fa della parola uno dei suoi punti cardine e della letteratura un habitat ideale. Per me lavorare solo con la musica (e con una voce usata come strumento più che come veicolo di significato letterario) è stata una bella scommessa. Suonando con Francesca mi sento più libera di lasciarmi trasportare unicamente dalla dimensione-musica, senza dover prestare attenzione alla composizione di una canzone, dove si deve tenere conto di tante variabili e dove c’è anche un testo che inevitabilmente ne condiziona il mood. Le batterie del disco le ho “scritte” di getto, senza pensarci più di tanto. Non mi aspettavo un’accoglienza così calorosa, anche se quando Francesca mi ha fatto ascoltare i brani li ho trovati bellissimi. Ora è il momento di ragionarci un po’ di più. Che direzione prenderà la nostra musica futura? Per un musicista è sempre una domanda stimolante ed eccitante.
Questo disco chiama in causa la psichedelia, il math rock, lo shoegaze, il dub… risultando quasi futurista nell’attitudine… Ci sono dischi in particolare che vi hanno ispirato?
Vittoria: Sono abbastanza onnivora negli ascolti, non so dire se ci siano stati un disco o un musicista in particolare che mi abbiano influenzato. Di sicuro ultimamente ascolto molto meno rock di quando ero giovane. Mi piacciono Steve Reich, Max Richter, Stefano Pilia, Brian Eno, ultimamente Egle mi ha mandato un live molto figo di Jason Treuting. Adoro i batteristi che fanno lo stesso giro sempre, i neri in questo (e molto altro) sono maestri assoluti, il batterista di Fela Kuti di cui mi sfugge il nome. Insomma, come si dice a Bologna, un “bel mistacchione” di riferimenti.
Parliamo dell’aspetto cinematico del progetto, mi riferisco ai tre cortometraggi avanguardisti degli anni Quaranta della regista ucraina Maya Deren. Raccontatemi il loro significato nel vostro atto creativo?
Vittoria: I tre corti per me sono stati una specie di rivelazione. Pur non sapendone molto a livello storico, ho percepito l’esistenza di un gruppo creativo dietro a quei tre film: una regista, molti attori, danzatori, artisti che stavano mettendo insieme in quel periodo qualcosa che sarebbe sopravvissuto nel tempo, che sarebbe stato di ispirazione per molto cinema a venire. È come se sentissi la presenza di quelle persone, vive e creative in quel momento. Chissà, forse persone che, come Deren, avevano trovato rifugio a New York in tempi di guerra, che provenivano da posti difficili, con la speranza di salvarsi lo spirito, oltre che la pelle, e lasciare il segno. La fascinazione verso quei film e la successiva “ispirazione” viene proprio per me da questo sentimento di vicinanza, di sorellanza e fratellanza artistiche: sentire affinità in un’epoca molto lontana da noi eppure umanamente vicinissima.
Ditemi dell’artwork, del suo significato, della sua forma e dei suoi colori…
Francesca: Jon di Maple Death ci ha introdotte ai lavori di Alicia Carrera, artista di base a Berlino, e ci siamo innamorate dei suoi collage, così l’abbiamo contattata e ha realizzato un artwork che rispecchia perfettamente il contenuto dell’album. Ci ha mandato un po’ di proposte e tutti insieme abbiamo optato per la versione finita sul disco, che è misteriosa e da codificare senza però essere inaccessibile, un po’ come la nostra musica.