Foto di Pietro Previti
Non è certo un mistero la confusione in cui prova a sopravvivere la musica live. Ovviamente il riferimento non è al mercato dei grossi concerti, inclini al sold out fisiologico o apparente, alimentato cioè da nomi consumati per breve scadenza social o da strategici restringimenti delle location. Il riferimento è bensì a quella famosa musica prodotta e suonata nella terra di mezzo, che è sempre stata uno stato mentale, un’ideologia da abbracciare e una tribù a cui scegliere di appartenere perché fiduciosi nella possibilità di dinamiche altre ed alte, alternative al gusto comune, precostruito e omologante.
Inutile sottolineare quanto l’era social abbia modificato l’estetica, svilendo le inclinazioni del pubblico verso una sorta di deriva generalista molto più accentuata rispetto al passato. Un’era in cui imperversa il contenitore dell’apparenza piuttosto che il contenuto, frutto di un lungo e tortuoso percorso di ricerca. Un’era di non-spazi e di iperconnessioni dove si ammazza l’arte dei nomi più belli che la mia generazione ha conosciuto. Tra questi, Umberto Maria Giardini (Moltheni fino al 2011), creatura camaleontica e celestiale, intransigente ed estrema nelle proprie scelte e vocazioni. Un cantautore antico eppure così contemporaneo per l’approccio visionario ed ermetico, classico e al contempo innovativo per le sue bolle sonore in cui vivono mondi di una poesia sublime dove i ricordi e le immaginazioni innescano fenomeni di trascendenza che solo la musica più bella sa osare. Raffinate le sue chitarre, la sua voce sospesa e onirica, le sue parole in forma di oracolo sul passato e sul futuro. Ecco, artisti di questo calibro non possono che vivere di chilometri macinati, di luoghi caldi di condivisione e professionalità, di corpi fatti di carne e aspettative. Non possono certo accontentarsi della post verità inconsistente e fallace. Diventa allora mille volte sacra la scelta di mettere insieme qualche data e mostrarsi nudi nella volontà e nel desiderio di svelare la propria malinconica felicità: spingere una canzone dalla propria anima a quella degli altri, in un gioco osmotico di imprevedibile commozione. Cormons, Napoli, Roma, Verona e Prato, tra Maggio e Giungo, diventano mete da abbracciare per ritrovare il contatto con un pubblico minuto, ostinato e resistente, che non aspetta altro che occasioni finalmente possibili.
Il 26 Maggio UMG arriva all’Auditorium Novecento di Napoli (in collaborazione con il Rockalvi di P. Guarino), nel perimetro della Phonotype Records, una delle prime tre aziende a fabbricare dischi in Italia, nata nel 1901 con il nome di Società Fonografica Napoletana per iniziativa di Raffaele Esposito e poi a lungo diretta dai suoi eredi. Una sorta di tempio della canzone napoletana in cui sono passati, tra gli altri, Enrico Caruso, Totò, Eduardo De Filippo, Renato Carosone. L’acustica eccezionale, risultato di sforzi di un passato analogico, gli strumenti di registrazione di un’epoca lontana e preziosa, l’importante archivio definiscono un vero e proprio patrimonio di energie e suggestioni. In luoghi come questo la terra di mezzo può ancora esistere ed artisti speciali come UMG possono respirare a pieno cuore la loro musica, incontrando chi sceglie di credere ad una verità tangibile ed emozionante.
In apertura due giovani campani: Matteo Trapanese e Luk. Entrambi al piano ed estremamente diversi. Il primo con un approccio più classico, dal mood lunare e intimista; il secondo irruente, quasi violento nel mettere in scena una poetica cruda e realistica. Due belle scoperte, due talenti con molta strada da percorrere ma di sicuro a fuoco ed ispirati.
Con l’ingresso in scena di UMG l’atmosfera cambia, diventa sacrale, al punto che anche semplicemente respirare potrebbe turbarla. Ogni tocco sulle corde delle chitarre, ogni parola masticata e fatta fluire è purezza, cristallo ed epifania. L’esempio perfetto di come la nudità di una canzone possa riempire tutto attorno a sé.
Luce, Alba boreale, A volte le cose vanno in una direzione opposta a quella che pensavi, le colpe dell’adolescenza, E poi vienimi a dire che questo amore non è grande come tutto il cielo sopra di noi, pronuncia il mio nome, Tutte quelle cose che non ho fatto in tempo a dirti, Gli anni del malto, Il trionfo dei tuoi occhi, Anni luce scorrono fluide disegnando un immaginario in cui perdersi per ritrovarsi rinati, purificati, legittimati dal potere salvifico della poesia.
Spazio anche per un inedito che sarà contenuto in Mondo e Antimondo, il disco in lavorazione e in uscita a dicembre. E spazio anche per una cover che affranca la nostalgia per la grande rivoluzione di autenticità che la musica ha intonato con il furore grunge: Head down dei Soundgarden è da brividi e fa breccia in tutti i presenti, così appassionata, così intensamente lisergica.
Umberto Maria Giardini è un miracolo di Bellezza, una prova di alternativa possibile in un mondo sul baratro dell’inconsistenza. C’è solo da inchinarsi alla sua grazia e alla sua meravigliosa trasparenza.