Quattro generazioni musicali partenopee. È stato detto e può sembrare scontato ma è esattamente quello che si è visto in scena all’Arena Flegrea di Napoli, location principale del Noisy Naples Fest 2023, svoltosi per diverse date anche nel Giardino romantico del palazzo Reale. Quattro modi di intendere e vivere la musica, lo stare insieme, l’arte, la socialità, testimoni delle vitali multiformi pulsioni della città della sirena. Gabriele Esposito, noto per la partecipazione a X-Facto e per la serie Mare fuori, apre la serata con la sfrontatezza pulita della gioventù, presentandosi solo voce e chitarra davanti a cinquemila persone (ma poi alla spicciolata lo supportano tastiera, batteria e violino), con un pop acustico molto semplice ma non banale che mostra un potenziale di spigliata vocalità, e si spera possa maturare anche sotto il profilo compositivo.
I Foja si presentano in gran spolvero, benché orfani della chitarra sanguigna di Ennio Frongillo, sostituito per il tour estivo da Gianluca Capurro con la misurata parsimonia che gli è propria: toccherà al maestro Scialdone il ruolo di vero e proprio solista, tra chitarre blues e mandolini evocativi che risuonano dalle ampie aule di antiche fiabe. Si piazzano sul palco con un intro atmosferica e rarefatta, ma poi partono subito in quarta con Cagnasse tutto, per un set per forza di cose breve, che arriva con urgenza al dunque. Stravolgono riff e arrangiamenti della tradizione rinverdita di ‘O sciore e ‘o viento, scuotono le dinamiche acustiche di ‘A Malia, sostenuta da un frenetico ritmico country rock e cantata da tutti a squarciagola. A chi appartieni, sotto i colpi di un riff tagliente e torbido, dà corpo al doloroso racconto della città, delle sue figure nate e cresciute nell’ombra, ma anche di chi ha toccato la gloria cadendo più volte nell’oscurità come colto da maledizione. In tal senso acquista nuovo valore il tributo a Maradona, con Sansone che mostra in orgoglioso silenzio una sciarpa (chi ama non dimentica), trovando più felice espressione rispetto al disco, anche grazie alla commossa e corale partecipazione di tutto il pubblico. Il soul anni ’60 di Tu si afferma anche dal vivo come energico e coraggioso omaggio a Mario Musella, che anticipa l’arrivo del terzo artista in cartellone, ed è un segno tangibile della maturità vocale di Diario Sansone, che padroneggia la scena in giacca e cappello con movenze istrioniche, mai così teatrali, lanciandosi in affondi di petto che strappano applausi.
James Senese è diretto e inesorabile. Misura le parole e le note, senza sprecare niente, punta al solo necessario. Scarnifica, sia pure in un contesto di virtuosismo strumentale, rifiutando orpelli e ammiccamenti. Suona. Non ha bisogno d’altro. Apre il set con Acquaiuolo l’acqua è fresca, ritornello diretto come le grida di strada che affida al coro del pubblico quasi con distacco e indifferenza, concentrandosi solo sul tempo, che porta con ticchettante movimento di spalle e chioma crespa, seguendo il groove incessante di Freddy Malfy, che erige come un metronomo un autentico wall of sound, disegnato meticolosamente toccando ogni pezzo della sua batteria, in una costruzione ritmica stratifica e devastante. Con la dilagante Simme jute e simme venute la tradizione processionale campana incrocia il free jazz di Albert Ayler, con James che si piega, alla sua “età certa” direbbe Peppe Barra, a soffiare con furia nel sax per lunghe urlate note liberatorie. E si ripete, cantando poco, nella celebre Campagna, dando voce al dolore dei braccianti e di tutti gli sfruttati di questo sistema ingiusto con un solo doloroso che vale più di mille affermazioni. E infatti esce di scena silenzioso e indolente com’era arrivato, senza una sola parola rivolta al pubblico, e pare di sentirlo borbottare con la sua proverbiale schiettezza “sono venuto a suonare e aggia sunato“.
I 99 Posse, che giustamente autodichiarano di inserirsi nella casella degli anni ’90 di questo evento intergenerazionale, superano brillantemente il pericolo “serata per reduci nostalgici”, affermando con trascinante energia che la lotta continua e non ci fa paura. Sembra non sia trascorso un giorno dal decennale della Posse, celebrato a breve distanza dall’Arena Flegrea davanti allo stadio che era ancora di San Paolo, dove chi scrive rischiò di rimanere schiacciato dal pogo infernale. Eppure quel tempo è triplicato senza che sia affievolita di un soffio l’energia dirompente del combo partenopeo, che merita a buon diritto di chiudere la serata, e se ci fosse anche il “premio adrenalina”, macinando con la schiacciasassi un set dal ritmo forsennato che si apre, dopo l’avvertenza di Zulù “trasite ‘e panne ca chiove“, con una versione orientaleggiante e tribale di Napoli, stavolta senza pogo, impedito solo dalla struttura a gradoni di cemento della platea, ma tutti saltano e si dimenano tant’è impossibile star fermi. I 99 condensano un’intera carriera in un medley rovente, anche grazie alla grinta inesauribile di Simona Boo, sul ritmo raggamuffin che mette in fila la dissacrante critica della sinistra di Rafaniello, le istanze di giustizia sociale di Salario garantito, le sferzate antisistema di Ripetutamente, l’esilarante presa in giro delle forze dell’ordine di ‘O documento. Si passa con grande fluidità dal reggae fumogeno di Stop that train all’hard-core punk di Rigurgito antifascista, fino alla dilatazione dub di Curre curre guagliò, che in ogni caso non perde la sua spinta ritmica. È una festa e ci sta che sul finale si festeggi tutti insieme sul palco, col rientro in scena di Esposito e i Foja e l’arrivo degli organizzatori Jovine e Tartaglia, ed è chiaro che il brano sarà nuovamente Curre curre guagliò, con tutti i vocalist che a turno si ritagliano uno spazio mescolandovi i propri brani con freschezza improvvisativa (esilarante resta il mash up “curre curre Fellò“). Una festa di passionale vorticosa coralità, che lascia un solo rammarico: la brevità. A presto.
Foto e Video di Alessio Cuccaro