Da scartare con fanciullesca ingordigia, per connettersi con un universo di stimoli allenanti in cui mi sono rifugiato tante di quelle volte da averne perso il conto. Può cambiare il nome con cui identificarlo, ma è una certezza marmorea – ed esca fuori da quest’aula chi ne dubita – che Umberto Maria Giardini e la sua cifra stilistica che lo rende un corallo prezioso sul fondale dell’attuale mare inquinato siano sempre lì a cospargere di napalm emozionale chi ha la buena suerte di incontrarne la produzione rassicura, come lo stare ad un incrocio e dare senza fretta la precedenza sia destra che a sinistra. Come tutte le cose preziose, anche questo Ep, uscito il cinque ottobre per La Tempesta Dischi e che segna il ritorno dell’artista bolognese di adozione a quattro anni di distanza dall’ultimo necessario Forma Mentis, va goduto dopo la inevitabile apnea che conduce agli abissi, schivando alghe e detriti, in una discesa interiore che punta a far affiorare un manufatto sonoro di classe sopraffina, come piedi nati ed allenati a Copacabana. Un lavoro raro ed inatteso, quasi come le zanzare che mi danno la caccia nonostante il novembre sia alle porte, accompagnato da un contributo visivo, di taglio documentaristico, a cura di Marco Falanga, con il quale, tra paesaggi nordici di impronta quasi bruegeliana ed atmosfere raccolte da camino acceso, si raccontano alcune fasi della produzione di questo Domus Meus, tappa intermedia di avvicinamento al nuovo album in corso di completamento. Oggi come sempre schiena dritta ed assoluta quanto benedetta incapacità di ammiccare al mainstream, storicamente disavvezzo allo scodinzolare, coerente come un artista dovrebbe, nel vergare con ettolitri di poesia liquida le pagine solo quando realmente l’urgenza sublima nel suono. Quando l’animale che ognuno lascia pascolare nelle proprie gabbie interiori cerca di forzare i lucchetti ed uscire dalla propria Sant’Elena attorno alla quale era stato disposto più di un giro di filo spinato. Che anche il silenzio è una risposta, talvolta feroce, talvolta indefinita come barbe dipinte da Ribera, simili a nuvole ovattate allargate con le mani ad acquisire volume e profondità. Perché Umberto Maria Giardini ha sempre evitato le astuzie da Capodanno in stile Maestro Canello, mettendo al vertice della piramide dei bisogni la riconoscibilità e la porosità delle impronte da lasciare nella calce viva della Walk of Fame su cui di diritto, e colpevolmente in ritardo, va collocato. Ne Le bilance della mente, unico ed apprezzabile inedito di questo EP, il cagnaccio dagli occhi neri ed il ventre pesante che si poggiò anche sulle spalle del poeta che cantò di una luna diventata rosa, è tenuto al guinzaglio, abbeverato mentre la nostalgia per i bivi mancati provoca la brutalizzante sensazione di avere disertato la vita, avendo staccato la spina ed atteso, invano, che qualcun altro potesse riattaccarla, mettendo sabbia bagnata nei barattoli dove un tempo c’erano nuvole, solo per dare peso, solo per non lasciare andare. Come quel dicembre del duemilanove alla Casa della Musica, con il maestro G a lasciarci rapire da una corona di spine sul capo dell’allora Molteni ed un display che non avrebbe dovuto lampeggiare facendomi sgranare gli occhi. Non lo sapevo ancora che anche un grande elefante poteva essere legato saldamente con una corda di capelli femminili intrecciati. In questo un monaco giapponese del milletrecento non sbagliava di un millimetro. Che si fece dannatamente in fretta a trasformare un cane vagabondo in un gatto stanziale. Il tempo è una ghigliottina senza sangue, già. Vedremmo meno teste rotolare se solo conoscessimo l’esatto istante in cui si supera la metà della propria vita, potendo fare in modo che la seconda parte non sia una discesa troppo rapida e neppure una salita troppo ripida e che non ci sia neanche un istante a fare da doppione, cercando di avere attimi più simili alla figurina di Pizzaballa che a quella di Van Basten. Le bilance della mente dialoga, in una squassante battaglia di condizionali disattesi e relazioni che tossiscono, con Anni luce, attraverso il filo rosso di esplosioni di epoche che deflagrano in altre epoche, per asimmetrie tra piede destro e piede sinistro e che rendono il camminare sulla mani, come acrobati, l’unica via percorribile. Guardando agli anni inarrestati con l’incoscienza sbronza di un ussaro uscito da uno tsunami di triplo malto. Grazia plena regala delicatezze in purezza, tra DNA rari che rendono capaci di guardare i nidi dentro agli alberi per riceverne emozione sfusa in grado di bagnare gli occhi. Preferendo ingoiare le domande secche che possano rendere tristi come una fila fuori al banco dei pegni alle sette del mattino, consegnandole al silenzio imperante “nelle grotte nero pece della mente“. Il folk intimistico che tracima da questo trittico commisto di nuovo e già edito, seppure rispolverato dalla presa diretta del Mushroom per Anni luce e Grazia plena, emana lampeggianti ascendenze da canzoniere eccelso, sulla linea del migliore Elliot Smith. Con Umberto Maria Giardini perfettamente in asse, quasi un derviscio alimentato da uno spleen abbagliante, capace di farlo girare fino a raggiungere il centro della terra, incidendo fra le costole per arrivare dritto ad accomodarsi tra lo stomaco e l’aorta, con tutta la cura chirurgica e piena di grazia di chi nasconde un albero piantandolo in una foresta, senza lasciare briciole sulla strada per ritrovarlo. Va detto con disseppellita emozione e voce ferma. Domus Meus è una gemma, lucentissima, di clamorosa bellezza. Diciassette minuti di incredibile perfezione. C’è da urlarlo, in modalità groupie, svegliando tutto il pianeta semmai. Che questo è lo splendore di cui si ha bisogno, la superficie crespa che protegge la poesia. E se è indiscutibile, per dirla con Federico Buffa che “non è un mondo giusto quello dove Avery Johnson ha un anello NBA e John Stockton no“, senza radicalismi ed a parziale rimborso, allora Umberto Maria Giardini, artista da ritenersi quasi rinascimentale, bello come solo le ripartenze continue sanno essere, nel suo preservarsi illuminato cantautore e pregevole musicista, ci consegna con questo lavoro l’ennesima prova ben riuscita in una carriera che come la classe operaia ambisce e meriterebbe il paradiso ad honorem. Perché, Deo Gratias, i mulini restano in piedi comunque, fieramente, nonostante i Don Chisciotte armati con la lancia spuntata dello streaming continuino a credere di poter fare la carbonara gettando un uovo crudo su un maiale. Del resto, come ho letto tra le righe scritte da un saggio, un tempo sul libretto delle moto si indicava come regolare il gioco delle punterie, mentre oggi c’è scritto di non bere il liquido della batteria. A ribadire che nulla è più come prima e che lo strabismo folle di questi tempi rende difficile “toccare il cielo con i piedi“, preferendo la comoda fruizione della scrittura sotto dettatura del nulla peggiore e del suono bulimico come ciliegina sullo sterco.
Credits
Label: La Tempesta Dischi – 2023
Line-up: Umberto Maria Giardini (chitarre elettriche, percussioni e voce) – Marco Marzo Maracas (chitarre elettriche) – Michele Zanni (pianoforte, Moog e Rhodes)
Tracklist:
- Grazia plena
- Anni lulce
- Le bilance della mente
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