È un Habitat tropicale quello dei C’mon Tigre, esploratori sonori del ritmo tribale e dei meandri naïf di una foresta pluviale immaginaria, come quella disegnata in copertina da Enea Luisi. Pur avendo il campo base a Bologna la band si lancia in missioni di scoperta lungo tutto il globo, stavolta anche col sostegno della Regione Emilia-Romagna, giungendo a festeggiare il primo decennio di attività con collaborazioni internazionali e questo quarto album, che conferma la qualità della formazione. L’iniziale Goodbye reality scava nella memoria di un tempo perduto con un grave fraseggio di fiati ondosi, che si diffondono come vapori sulfurei di un antico calidarium, scivolando sulla seta della grandeur di un cinema stiloso di grandi eroi e avventure esotiche, narrate al ritmo brioso del samba da voci aggrappate al microfono come un crooner troppo brillo per cantare a piena voce. Poi però la coda sintetica ci ricorda che siamo nel 2000 inoltrato e l’Africa di the Botanist non è quella di Fela ma di Seun Kuti (che oltre a cofirmare il brano presta voce e sax alto) e le istanze afro beat si aggiornano di temi ambientali dal tono declamatorio e inquietante, taglienti chitarre elettriche, torrenti di fiati. E anche la voce grezza e primordiale di Seun non guadagna la ribalta con la solita esuberanza, si confondendo con gli altri strumenti in quello che potrebbe sembrare un limite ma è invece una precisa scelta estetica del collettivo senza primedonne dei C’mon Tigre, in cui tutti i suoni sono alla pari, così come nei Verdena, seppur con esiti sonori differenti, la voce di Alberto Ferrari si mescola al muro sonoro prodotto dal trio. Lo stesso avviene con la partecipazione della cantante brasiliana Xenia Franca nella successiva Teen Age, che rallenta il riff ruvido da drum’n’bass scomponendone la trama per l’inserimento luminoso di un coro femminile quasi terzomondista eppure etereo, divagando poi su ritmi percussivi e pulsazioni incalzanti, xilofoni martellanti, vocalizzi e parole dense di vecchi grammofoni a tromba. Forza l’andatura 64 Seasons, che gioca su un ostinato di chitarra funky tra James Brown e Funkadelic e una voce suadente tra Beck e il Bono meno ruffiano, pompata da ottoni ascendenti e break di elettronica naturale grazie al soffio nelle ance e ai colpi leggeri di xilofono, sostenuti dal drumming retrò di Danny Ray Barragan, del collettivo californiano Drumetrics, che regge le escursioni strumentali con colpi fuori misura dal suono sporco. Un suono che avvolge il ritmo ovattato anche in Nomad At Home, squarciata dal grido straziante che si alza dal labirinto di una medina prigione invalicabile, in loop di alienazione distante e disperato, che conduce a un epilogo etnico di ritmi anomali e corde rassegnate e sconfitte, in cui vibra il dramma di un Medioriente che non trova pace. Odiame è la prima cover incisa dal combo, che rielabora l’originale dell’ecuadoriano Julio Jaramillo, destrutturando il bolero caraibico in tre quarti con un drumming impazzito tra colpi secchi e rullate improvvise, suoni sintetici e vacui come le desolate tastiere di Arancia Meccanica, una voce di colla liquida che riveste gli accenti ispanici. Dalla foresta profonda emergono i racconti onirici di Sento Un Morso Dolce, seduta psicanalitica per Giovanni Truppi che scandaglia a ritmo serrato i moti surreali di un sogno torrenziale in cui niente è mai certo, dove le percussioni e i cori di una tribù che non ha mai incontrato l’uomo bianco si fondono alle angosce urbane di bassi inquietanti, elettroniche asfittiche, vociare indistinto, con le paure che convergono nella visione di una tigre mortale, pronta a colpire. Ma non siamo morti e nella grande sala da ballo va in scena l’orchestra di Na Dança das Flores col suo coro variopinto da carnevale di Rio, i suoi flauti vitali e il sillabare lento di un crooner che si perde nei battiti fitti di un ritmo avvolto dai tasti di plastica di una techno ariosa, finendo in una felice coda strumentale. Arto Lindsay pare il candidato naturale a raccogliere il microfono al termine di quel balletto, e trova una perfetta comunità d’intenti con la band cofirmando Keep Watching Me, che innalza lirici pinnacoli sulla trama sottile di chitarra pulita, aspra e fragile, di matrice soul, che scivola su un arpeggio di armonici, tappeto di divagazioni sognanti e concrete, di ritmi scomposti, fiati urlanti, sibili sofferti e vagoni che deragliano. Un mondo in dissolvenza, di malinconico rimpianto, ma gli offriamo volentieri la giugulare, perché il morso è dolce.
Credits
Label: Intersuoni – 2023
Line-up: Danny Ray Barragan DRB (batteria) – Mirko Cisilino (tromba, trombone, corno francese) – Xênia França (voce in Teenage Kingdom) – Marco Frattini (batteria) – Seun Kuti (voce e assolo di sax alto in The Botanist) – Arto Lindsay (voce in Keep Watching me) – Eloisa Manera (violino) – Pasquale Mirra (xilofono, xilofono elaborato) – Daniela Savoldi (violoncello, viola) – Beppe Scardino (sax baritono, sax tenore, sax contralto, flauto, clarinetto basso, clarinetto basso elaborato) – Valeria Sturba (cori in The Botanist, Teen Age Kingdom, Na Dança Des Flores) – Giovanni Truppi (voce in Sento Un Morso Dolce)
Tracklist:
- Goodbye Reality
- The Botanist (feat. Seun Kuti)
- Teen Age Kingdom (feat. Xenia França)
- Sixty Four Seasons
- Nomad At Home
- Odiame
- Sento Un Morso Dolce (feat. Giovanni Truppi)
- Na Dan ça Das Flores
- Keep Watching Me (feat. Arto Lindsay)
Link: Sito Ufficiale
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