In un pit affollatissimo come raramente mi è capitato di trovarne, nella luce di un pomeriggio uggioso, assisto, dopo aver sorseggiato due gin tonic che sanno di gazzosa, all’esibizione dei Royal Blood: giovane, talentuoso ed energico duo che gradisco come si possono apprezzare quelle minuscole entrée che vanno oggi assai di moda, offerte sovente dai ristoranti stellati, il cui sapore dimentico di solito dopo pochi secondi. Il loro sound trascina già la folla, impaziente di accogliere i Queens, ma io soffro l’assenza di una chitarra e un po’ mi sforzo di condividere l’entusiasmo per il gruppo inglese eseguendo solo in parte il “riscaldamento” che precede la vera e propria performance corale che ci vedrà protagonisti tra poco.
Ci vorrà circa un’ora di attesa tra le due esibizioni. Approfitterò dell’intervento dei tecnici sulla canalina dei cavi elettrici che attraversa longitudinalmente il pit per guadagnare una decina di metri. Come sempre, cerco di occupare quell’ideale punto privilegiato, equidistante tra gli altoparlanti di destra e di sinistra: adesso sono al centro e pochissimi metri mi separano dal palco. Con il favore delle tenebre, puntuali come un’esecuzione, i Queens Of The Stone Age fanno il loro ingresso sul palco degli I-Days, solenni ed eleganti come veri Signori del Rock, mentre suona in filodiffusione la colonna sonora di Conan il Barbaro, tanto per garantire quell’atmosfera utile a suggerire ai principianti che è il momento di farsi da parte: giacche di pelle, camicie scure e luccichii di chitarre per ricordarci chi siamo e da dove veniamo, nonostante il progressivo degenerare di certi costumi. Rintocchi: Josh Homme, con tutto il fascino acquisito con l’età, la chioma argentea e il carisma di chi sta per compiere 40 anni di brillante carriera da autentica rock star, esordisce cantando “Hey, sister, why you all alone? (…) I wanna show you all my love” mentre la suggestione – probabilmente dovuta alle temperature, alla lunga resistenza allo spaventoso sciame di zanzare e alle esalazioni da sudore umano – mi persuade del fatto che si stia rivolgendo proprio a me. Mentre i nostri corpi sono ancora intenti a seguire il ritmo del primo brano, loro sono già a incalzarci con i suadenti versi di Smooth Sailing cantata a più voci da Homme e compagni in un’accattivante alternanza tra lenti falsetti e profondi gemiti, mentre il ritmo segue il crescendo dei riff graffianti e la folla si prepara a perdere ogni inibizione. My God is the Sun attacca immediatamente dopo l’ultima nota del brano appena conclusosi: dalla calca si eleva un’unica voce che dichiara la propria devozione al Dio Sole delle Regine. Siamo tutti già cotti a puntino tanto da poter affermare senza alcun dubbio che sì, The Devil has landed. Durante l’esecuzione di Paper Machete Homme ancheggia sicuro e libero come un eroe appena scampato alla morte e mi pare di riconoscere nei suoi occhi il fiero bagliore di chi ha fatto sua, finalmente, la consapevolezza del grande privilegio che sta nel poter assaporare la vita un respiro alla volta. Ai suoi piedi, corpi seminudi vengono sollevati e traghettati da una parte all’altra del pit per il tramite di centinaia di mani che si elevano verso il cielo plumbeo. Emoticon Sickness, dai ritmi lievemente meno serrati, é comunque cantata a squarciagola da tutto il pubblico dell’Ippodromo di San Siro tanto che Homme e compagni chiudono le ultime strofe in acustico lasciando a noi la chiosa del brano. Segue I Sat by the Ocean e non vi è più alcun dubbio sul disarmante perfezionismo di una band che sa esprimersi solo al meglio delle sue possibilità. Con Time & Place il mare umano è scosso da onde che ci spingono in ogni direzione; nessuno può salvarsi, nessuno può legarsi, ci ritroveremo ai piedi della band e poi indietro e poi altrove, ancora e ancora. Quando esplode Go with the Flow – il brano che ha visto sbocciare il mio amore per i Queens nell’oramai lontano 2003 – il sortilegio é compiuto: un corale amplesso liberatorio che fonde i corpi di tutti noi con la polvere dell’Ippodromo. É il momento in cui penso che forse moriremo tutti qui, calpestati o vittime di infarti multipli. Invece loro, inafferrabili professionisti dell’oblio da rock, ci placano con The Lost Art of Keeping a Secret. Il battito rallenta, per la prima volta ho il controllo delle mie braccia e ne approfitto per accendere una sigaretta. Il mio nuovo vicino di caos me ne chiede una e io gliela consegno: aspira appena una manciata di volte e poi lo vedo urlare come per caricarsi prima di una battaglia e correre, lanciandosi di nuovo, incurante, come dal bordo di una piscina, nella folla scalpitante e vorticante, precedendomi di qualche secondo e sparendo nell’immenso intreccio di membra. Carnavoyeur mostra la piena maturità vocale e stilistica di Homme – ormai riferimento e ispirazione per generazioni di artisti – e ci avvolge in una trance di massa fino alle prime note della puntuale Make it Wit Chu, celebrata all’unisono da diciannovemila voci. È il loro modo per ricaricarci prima delle scariche elettriche che ci infiammeranno definitivamente con You Think I Ain’t Worth A Dollar, But I Feel Like A Millionaire. Siamo stati catapultati in una dimensione dalla quale non torneremo mai più indietro: No One Knows é un implacabile metronomo che scandisce i nostri movimenti convulsi, rapisce le nostre anime e senza soluzione di continuità ci proietta in orbita con l’ultima Song for the Dead. Alcuni hanno forse già perso la sensibilità degli arti inferiori e di quelli superiori ma nessuno si fermerà perché se é vero che Life’s the study of dying, noi stasera usciremo dall’ippodromo infuocato devastati, felici e con un master in “Vita, morte e miracoli del rock”, che come tutte le cose meravigliose, non è che una grande e sensazionale lezione di amore e resistenza.
Foto da pagina FB dei Queens of the Stone Age