Tutti ricordano il duetto con Mina a Teatro 10, ultima apparizione di Lucio Battisti per la tv italiana, il 23 aprile 1972. Beh, forse non proprio tutti, ma di certo chiunque abbia visto, anche di sfuggita, una delle innumerevoli repliche mandate in onda dalla Rai nei successivi cinquant’anni, nei tanti programmi nostalgia nazional popolari o nei tanti special costruiti sempre sullo stesso repertorio. Per quanto tra i migliori rappresentanti della musica che in Italia si affacciava dagli anni ’60 al nuovo decennio e certamente animati da stima reciproca, Mina e Battisti non potevano essere più diversi, sebbene in seguito accomunati dal drastico allontanamento dal mondo dello spettacolo radio televisivo. È significativo e disarmante quanto il servizio pubblico abbia contribuito a forgiare l’idea di Battisti nell’immaginario collettivo, attraverso un repertorio di successi che si arresta per lo più alle canzoni eseguite dal vivo o in playback per la televisione o da essa trasmesse dai palchi di Sanremo, del Cantagiro, del Festivalbar. Una visione ristretta, cronologica e artistica, che ha finito con lo stritolare il suo campione, provocandone la fuga. Una fuga che è rigetto e condanna, gesto radicale che non è riuscito a tanti che allora professavano impegno e partecipazione politica, ma in definitiva sono diventati ruote nell’ingranaggio. Eppure, prima ancora dell’esilio volontario, il povero Lucio s’era già ingiustamente guadagnato la definizione di fascista, solo perché nel ’71 durante le registrazioni del programma della Rai, Speciale tre milioni, era stato immortalato mentre a braccio teso dirigeva l’orchestra. Braccio teso uguale fascio, le fake news non nascono nell’era digitale. Tre anni più tardi uno scettico Renato Marengo, giornalista e produttore musicale, mentre lavora a quella che rimane l’ultima clamorosa intervista rilasciata da Battisti per la stampa italiana, uscita per Ciao 2001 nel 1974, non può trattenersi dal chiederglielo: “Lucio ma è vero che sei fascista?” Lucio resta stupito e risponde: “E che vor dì? Io non mi interesso per niente di politica, non so neanche cosa voglia dire oggi essere fascista. Non lo sono, non sono di nessun partito, Giulio (Mogol, n.d.r.) è socialista e a volte parliamo della gente, ne abbiamo conosciuta tanta, tanto popolo nei nostri viaggi in America Latina, quanta umanità tra le favelas”. Argomento chiuso. Favelas, già, perché il nono album in cinque anni di attività solista di Battisti, che pure si prese più di 14 mesi dal precedente Il nostro caro angelo, prende spunto proprio da un lungo viaggio compiuto dal musicista in Sud America. Benché di gran lunga il più complesso e ostico album del periodo condiviso con Mogol, Anima latina è stato anche un discreto successo commerciale, piazzandosi all’ottavo posto dei più venduti in Italia nel 1975, essendo uscito a fine anno il 2 dicembre 1974 per l’etichetta Numero Uno, casa legata alla RCA fondata da Mogol, presto affiancato dallo stesso Lucio, che esordisce nel 1969 col primo singolo dei Formula 3 e che nei primi anni ’70 ha pubblicato alcune delle migliori produzioni realizzate nello Stivale, dalla Premiata Forneria Marconi (vecchi sodali di Battisti) a Ivan Graziani, da Edoardo Bennato a Bruno Lauzi, da Il Volo (quello di Alberto Radius, non confondiamo) a Tony Esposito. Marengo è proprio il produttore di Esposito quando nel 1974 incontra al Mulino di Anzano del Parco Mogol e Battisti intenti ai lunghi ascolti di postproduzione di Anima Latina, occasione da cui è nata la celebre intervista (cui è seguita il 18 maggio 1979 quella per Giorgio Fieschi ai microfoni di Radio Svizzera), in cui Lucio dichiara tutto ciò che c’è da sapere sul disco, sulla sua visione della musica e del fare musica, e in cui sono anche abbastanza chiare le motivazioni del definitivo ritiro dalle scene. Innanzitutto, c’è un intento programmatico che sottende l’album e il nuovo corso musicale e artistico che inaugura: “le realtà sono mutate, ho rinunciato alla mia posizione di leader, ad essere l’artista, la voce che dall’alto della sua fama, della sua abilità o della sua esperienza, si concede, zittendo gli ubbidienti e sommessi fruitori del disco e del concerto (…) non per volontà suicida, non per autolesionismo, non per voler rinnegare, ma semplicemente per preparare il terreno all’azzeramento di una personalità monumentale, per azzerarla prima e successivamente umanizzarla al massimo, farla partecipare alla vita degli altri, conversare con gli altri, comunicare con gli altri per mezzo della musica, della voce anche, ma non più come prima, non più con la voce bella, forte, impostata, con frasi di effetto: con cose vere, dette in mezzo agli altri e in mezzo alla musica, non falsamente o ipocritamente modeste, solo uguali a quelle di tutti gli altri”. In pratica la musica diventa centrale, senza più ritornelli da cantare sopra strumenti ridotti a semplice accompagnamento, e ancor più centrale diventa l’esperienza di ascolto, che è comprensione, conoscenza, stimolo, profondità: “siamo ancora legati alla strofa, alla rima, sia pure trattandosi di cantautori, di brani impegnati e ricchi di significato; sono sempre cose che si subiscono. Questa sudditanza dell’ascoltatore deve essere modificata; non che tutti debbano comporre o far musica, ma partecipare si! (…) Ed è un grosso fatto sociale oltre che musicale. Partecipare alla musica (e quindi vivere, ridere, soffrire, esprimersi, pensare), non subirla, è la mia concezione conclusiva, oggi, di fare o di ascoltare musica. La voce, le parole, come gli strumenti, fanno parte di un tutto: musica, cantante, ascoltatore, esecutore“.
In questa visione totalizzante, l’album si apre col mondo rarefatto all’alba di Abbracciala abbracciali abbracciati coi suoi sintetizzatori di lacrime leggere, i tenui fiati di un respiro sommesso, uno scarno pattern di batteria del fidato Gianni Dall’Aglio, affine ai Weather Report di American Tango uscita solo pochi mesi prima, appropriatamente contrappuntato dal vibrante basso jazzato di Roberto “Bob” Callero. La voce è dietro una coltre di nebbia, nascosta a recitare un intimo segreto, “questi strani vuoti della mente mia“, e un tema da brass band riecheggia come un ricordo svanito le prime prove soul di Lucio, fatte di un canto spavaldo da emulare a squarciagola che ora sprofonda nel dubbio più totale, ma anche costruttivo: “Parlavo di follia / E del grande amore / Grande bugia / Che ne pensi, dimmi / Di un uomo tanto stupido da crederti “sua”?“. Gli assoli di Claudio Pascoli al flauto e al sassofono toccano ancora le rive di una fusion tutt’altro che frequentata dal mondo cosiddetto cantautoriale nostrano. E ancora Battisti che dissacra sé stesso, la sua hit nazional popolare Acqua azzurra, acqua chiara, con parole desolate “che ora è? È tardi ormai“, dunque “allontaniamoci il centro dell’universo” per svanire in una nuvola di vocalizzi astratti, controparte solare dell’esperimento inquietante de Il fuoco che chiude l’album Umanamente uomo: il sogno (1972). La forma canzone ritorna nel duetto di Due mondi, in cui Lucio è affiancato dalla voce a tratti sgraziata di Mara Cubeddu dei Flora Fauna Cemento, volutamente sul filo pericoloso e adrenalinico della stonatura, ed è la prima vera escursione nel ritmo sudamericano, quello andino più sostenuto e rivoluzionario, dagli Inti-Illimani in poi, che travolge con foga mentre si dipana su giro armonico discendente, con le due voci che si alternano in un dialogo d’amore quasi violento per quanto è urgente, sospinto da fiati spezzati e increspato da una tastiera atonale di pulsazioni nevrotiche quanto esaltanti. Se non si è già in fuga, c’è di sicuro noia di riflettori e fama, e allora Mogol scrive Anonimo, testo misterioso di ricordi d’infanzia, censurato per le disinibite allusioni sessuali, “Nascosti giù al fosso, complice il sesso / A misurarsi, a masturbarsi un po’…“. Il brano avanza in un clima di inquietante sospensione, le tracce del passato affiorano sfocate tra bassi magmatici e campanelli magnetici, mentre va in scena un evocativo assolo di chitarra progressive (sì, questo è senza dubbio un album progressive, nonché uno dei migliori di sempre), chiuso da stacchi di ritmica tensione e flauti pungenti. Poi al centro arriva come una epifania il tema sognante dell’anima latina a riempire l’orizzonte di una densa foschia dorata, da cui emerge un ostinato flamenco acustico e una ripetizione schizofrenica che accresce la tensione fino al climax, risolto con un’altra autocitazione, riarrangiando per soli fiati scoppiettanti la melodia di Pensieri e parole.
Gli uomini celesti gioca su un intreccio di chitarre che si rincorrono in uno scenario mitico dimenandosi nelle strofe con un ritmo che traspone la bossa nova in un campo di scarnificata ossessione, che chiude il primo lato del vinile. Ma l’idea è di assoluta continuità del tutto, giacché il lato B parte con la ripresa del brano precedente lanciata subito da un giro furioso di vocalizzi e chitarra ritmica, secondo uno schema che Battisti aveva provato a improvvisare in qualche apparizione televisiva di un paio d’anni prima, finché irrompe il ritmo agitato e vitale del samba con la sua carica percussiva, sfregiata da un effetto cacofonico che scuote. E poi una seconda ripresa, quella di Due mondi, aggiunge un tocco di liricità toccante con la voce calda di Lucio che si accompagna solo col piano e il coro armonico di Mara Cubeddu.
La title-track Anima latina è il fulcro dell’album, che nasce da uno spunto esotico, quasi terzomondista, per usare una parola allora in voga e oggi caduta purtroppo in disuso, come dichiarato dallo stesso Battisti nell’intervista a Marengo: “con l’anglicismo e l’americanismo che ci hanno coinvolti in questi anni andavamo perdendo, proprio noi mediterranei più di tutti, lo spirito creativo, la vitalità che ci caratterizzano da sempre e che non sono morti, ma semplicemente addormentati dalla sudditanza all’America dei frigoriferi e dei consumi. L’America Latina mi ha scosso da certi torpori, ma già da qualche anno avevo dentro un senso di rivolta, sentivo che la strada giusta non è quella degli altri, che la cultura degli altri può violentarci, sopraffarci ma non potrà mai diventare nostra“. Quell’attacco di chitarra acustica che ha tutto il ritmo di Lucio, bagnato sulle coste di Rio, quel tema epico col suo largo giro armonico di quattro accordi a reggere una frase malinconica di poche note, il battito delle percussioni di Massimo Luca e Franco Loprevite incalzato dai piatti in controtempo di Dall’Aglio. “La gioia della vita / La vita dentro agli occhi dei bambini denutriti / Allegramente malvestiti / Che nessun detersivo potente può aver / Veramente sbiaditi“. Uno dei più evocativi testi di Mogol per una canzone dilatata e vitale che affonda “nel grembo di grosse mamme antiche dalla pelle marrone“, simbolicamente rappresentate da Dina Castigliego, fotografata da Cesare Montalbetti per l’interno apribile della copertina, attorniata da una schiera di bambini festanti, mentre tutto intorno cresce il coro giocoso del carnevale al ritmo orgiastico di bande di percussioni frenetiche sconquassanti. Il salame guadagna un’altra censura ai i testi di Mogol, sempre per allusioni sessuali, cosa che oggi fa quasi sorridere visto il candore con cui è descritta la scoperta del sesso da parte di due bambini, specie se paragonato a quanto c’è oggi in circolazione, un segno di un’Italia bacchettona e ipocrita cambiata solo esteriormente, ma in fondo ancora imbavagliata dallo stesso moralismo perbenista. Lo si contesta con gli esperimenti della musica concreta di un Cage e del nostro Morricone, per poi aprirsi nel tenero abbraccio di una filastrocca fanciullesca che muta in un tema di sofferta melancolia sintetica, presagio di tanta elettronica ventura. Introdotta da una frase che ammoderna le forme della musica popolare della tradizione italica, La nuova America è rhythm’n’blues per orchestra di fiati, vecchio amore di Lucio, che si lascia andare a un fingerpicking sincopato e andante, solcato da chitarre distorte e cori visionari, impulsi scattanti e frasi confidenziali: in quell’io voglio vivere adesso, subito, c’è tutto il Vasco Rossi a venire. È un album che va ben oltre la propria epoca, non a caso si chiude con Macchina del tempo, ancora una canzone, anch’essa destrutturata attraverso un sostrato percussivo che la percorre fino a prendere il sopravvento portando a un radicale cambio di registro, un cambio di passo che fa tanto Genesis, condotto dal battito andante di Dall’Aglio, percorso da voci che si scontrano in schermaglie laceranti, perché “Programmare una vita in un giorno / Vuol dire morire quel giorno con te / Ed io voglio / Mai perdere nessuno e nessuno che perda mai me“. Un finale che riecheggia il verso cosmico di Paul McCartney, noto estimatore di Battisti, che chiude Abbey Road: “and in the end the love you take is equal to the love you make“. E come nell’inarrivabile vertice beatlesiano anche qui all’epilogo segue una coda appena abbozzata, Separazione naturale, che si srotola su un borbottio di fondo che ricorda il Battiato sperimentale di Fetus e Pollution, trovando l’ultimo soffio di penetrante melodia. Caro Lucio, per dirla con le tue parole, “Ah! Se avessi il tempo per amarti un po’ di più“.
Credits
Label: Numero Uno – 1974
Line-up:
Lucio Battisti (voce, chitarra, percussioni, tastiera) – Massimo Luca (chitarra, percussioni) – Bob Callero “Bob J. Wayne” (basso) – Franco Dede Loprevite “Dodo Nileb” (percussioni) – Claudio Maioli (tastiera, pianoforte) – Gneo Pompeo (sintetizzatore, pianoforte, Fender Rhodes) – Gianni Dall’Aglio (batteria) – Pippo Colucci – tromba) – Pier Luigi Mucciolo – tromba) – Gianni Bogliano (trombone) – Claudio Pascoli (flauto, ance) – Mara Cubeddu (voce) – Alberto Radius (cori) – Mario Lavezzi (cori)
Tracklist:
- Abbracciala abbracciali abbracciati
- Due mondi (con Mara Cubeddu)
- Anonimo
- Gli uomini celesti
- Gli uomini celesti (ripresa)
- Due mondi (ripresa)
- Anima latina
- Il salame
- La nuova America
- Macchina del tempo
- Separazione naturale