Siamo tornati al parco di S.Giuliano – Mestre (VE), perché pochi luoghi in Italia possono candidarsi per un festival come quello marchiato Heineken e di certo il parco a ridosso della laguna veneziana è tra i migliori in assoluto per capacità, ricettività e bellezza.
E’ anche vero però che nella precedente edizione del festival, nel purtroppo lontano 2007, una tromba d’aria spazzò via il palco dei Pearl Jam e pure quest’anno qualcosa di molto simile non ha permesso all’esibizione dei Green Day di avere luogo in sicurezza e di conseguenza è stata annullata. Erronea scelta del periodo o incompatibilità geografica, l’Heineken Jammin Festival veneziano pare essere marchiato da una considerevole dose di sfortuna, che speriamo stia andando via via a scemare.
Anche il 6 Luglio, data conclusiva con headliner gli intramontabili Pearl Jam, la pioggia, il vento e il cielo terribilmente minaccioso hanno fatto tremare il pubblico pomeridiano permettendo a tutti di sfoderare (con un pizzico di vergogna) le sgargianti e variopinte mantelle e k-way impermeabili. Ma tutto questo è durato poco e la festa è continuata senza nemmeno ritardi nella scaletta generale (il buon Eolo ha pensato di divertirsi proprio durante un cambio di palco, e di ciò gli siamo tutti molto molto molto grati).
Andiamo però con ordine. Un fiume di gente, che scende da navette e giunge a piedi dai parcheggi, si riversa dentro il parco con una insolita velocità: i tempi d’attesa sono ridotti al minimo indispensabile e questo vale un plauso all’organizzazione che ha saputo gestire egregiamente l’afflusso.
Il parco, come si sa ma come è difficile realizzare se non ci si è già stati, è sterminato, ondeggiante sulle sue lievissime colline, contorto e sinuoso nei suoi vialetti ed attraversamenti di fossi e piccoli canali. Dall’ingresso del parco fino al palco bisogna camminare per più di una decina di minuti, tra il verde, e l’ombra offerta solo dai numerosi stand degli sponsor e delle varie attività organizzate (dall’area spiaggia ai campi sportivi, passando per i combattimenti con i gavettoni ed il body painting).
Il palco è grande, e persino Beth Ditto dei Gossip, inverosimilmente, sembra piccolina laggiù. Ebbene sì, siamo arrivati dopo l’esibizione dei Gomez, ce li siamo persi e sentendo i commenti della gente pare un peccato. La giornata però è ancora lunghissima, ed i Gossip scatenano il pubblico più vicino al palco ed intrattengono coloro che si sono appostati comodamente sulla collina antistante il palco. La voce sorprendente di Beth Ditto (al pari del suo vestito dalla fantasia composta da svariati volti di Mickey Mouse) accompagna tutti i brani con tanta energia. Musicalmente bravi (non sconvolgenti), i Gossip si reggono sulla presenza scenica della cantante, appariscente per le sue forme non tipicamente da rock-star ma anche dotata di notevoli capacità canore: con le hit degli ultimi mesi la band strappa applausi praticamente a tutti. Per dimostrare ulteriormente che i Gossip sono Beth Ditto, la cantante si è cimentata anche in brevi esecuzioni a cappella: prima con Jeremy in omaggio ai Pearl Jam, poi con un’improbabile I will always love you di Whitney Houston a caratterizzare un modo decisamente bizzarro di concludere un energico live, segnato anche dalla caduta dal palco della stessa cantante che ha portato la band ad annullare le successive date, compresa quella capitolina.
Dopo un po’ di paura per via delle condizioni atmosferiche, un’altra donna dal riconosciuto carisma sale sul palco del festival: Skin insieme agli Skunk Anansie offre potenza, rabbia e qualità canora al pubblico radunato al parco S. Giuliano. Un live forte, impulsivo e graffiante che vede Skin muoversi come una nera pantera che ruggisce. La sua voce è davvero potente ed allo stesso tempo misurata: anche in questo caso una cantante che spicca di prepotenza sul resto della band. Senza nulla togliere agli Skunk Anansie, creatori di grandi canzoni tuttora famose, bisogna ammettere che faticano ad apparire al pubblico come una vera e propria band: i tre musicisti perdono il passo al fianco di una “front woman” tanto dirompente e qualitativamente alta come Skin. Loro fermi impegnati a suonare, lei scatenata ripetutamente sostenuta dal bagno di folla nel suo fare stage diving. Tra i pezzi più tirati, c’è spazio anche per infilare i i brani che hanno reso famosa la band, da Charlie Big Potato a Hedonism, fino alle più recenti Squander e Because of you.
E’ arrivato il momento di Ben Harper e i suoi Relentless7. Intenso come solo Harper può essere, il cantante e musicista californiano ha affascinato il pubblico con la chitarra slide che lo ha reso famoso in tutto il mondo. La band che lo accompagna, i Relentless7, con il proprio suono decisamente più rock traghetta la creatività di Harper in direzioni apprezzabili ma meno incisive che in passato. La storica band che accompagnava i live e i dischi in studio di Ben Harper, gli Innocent Criminals, offrivano una gamma di colori e sfumature completamente differenti, più vicine al funk ed al soul, più sinuose ed emozionanti.
La scaletta ha toccato quasi completamente brani dell’ultimo White lies for dark time,s eccetto le poche (e forse più scontate) perle del passato quali Diamonds on the inside e Better way. Riuscitissime e viscerali invece le cover di Heartbreaker (Led Zeppelin) e Red house (Jimi Hendrix). Quello di Ben Harper è la sua band è stato un set tagliente, ammorbidito solo dalla davvero splendida reinterpretazione di una coppia d’eccezione della storia della musica: Freddy Mercury e David Bowie sono stati impersonati da Ben Harper e dall’amico Eddie Vedder (accolto dal pubblico con un boato) nella magnifica Under pressure. L’amicizia che lega i due artisti sul palco è evidente da ogni gesto, ogni sorriso, ogni abbraccio. Uno speciale clima di empatia trascina il pubblico in canti ed occhi lucidi difficili da spiegare, da portare gelosamente nel cuore.
Conclusa la scaletta di Ben Harper, salutato calorosamente dal pubblico italiano a lui molto vicino, è giunto il tempo dei Pearl Jam.
E’ inutile dire che la maggior parte del pubblico era lì per loro ed è un pubblico affezionato come tante volte la nostra penisola ha avuto modo di dimostrare alla band di Seattle. I Pearl Jam questo lo sanno bene, e hanno pensato a fare le cose “come si deve”.
Il cielo ormai è buio ed addirittura qualche stella si sforza di risplendere per implementare l’impianto luci del palco, maestoso ma non pacchiano, semplicemente rock. Alle spalle degli strumenti appaiono i tasti da macchina da scrivere che caratterizzano la grafica di Backspacer, l’ultimo album della band di Vedder e soci. Appena si vedono le cinque figure apparire sul palco, il delirio ha inizio.
Appostati sulla collinetta riusciamo a vedere discretamente il palco, benissimo dai megaschermi posti al suo fianco, e possiamo godere di tutto lo spettacolo offerto dal pubblico, numerosissimo, coinvolto, appassionato e voglioso di musica.
I Pearl Jam sono qui per questo, per sconvolgerci e far risuonare nella laguna i brani che hanno coronato una carriera unica nella storia del rock per longevità, qualità e approccio al successo. Vedder, splendido 45enne, dimostra la grinta di sempre (e forse di più) aprendo il concerto con l’immortale Given to fly.
Questa sera quello della band alfiere del grunge è un live acido, potente e veloce. L’immediatezza del punk e la cura dei suoni e della costruzione delle canzoni che ha caratterizzato i Pearl Jam fin dagli esordi sono riunite in questo concerto con una resa spettacolare.
Dopo un omaggio ai Pink Floyd (Interstellar overdrive) è il tempo di Corduroy e la scatenata World wide suicide ad anticipare la canzone più solare mai scritta dai Pearl Jam, The fixer, con quel suo andamento saltellante che, diciamolo, fa stare bene.
Da Backspacer agli anni ’90 il salto si sente, ma è incredibile quanto la carriera dei Pearl Jam sia così coerente e limpida pur avendo una proposta musicale decisamente varia: Elderly woman behind the counter in a small Town, Breath ed Even flow sono perle che il pubblico non può non apprezzare.
La band sul palco è spettacolare: Jaff Ament al basso è incapace di stare fermo, Mike McCready gasa il pubblico con assoli di chitarra tenuta dietro alla testa, Matt Cameron si esalta a picchiare le pelli e Stone Gossard spinge sulla sua seconda chitarra. Eddie Vedder canta, suona, salta sulle spie, beve vino rosso italiano “a canna”, parla con il pubblico e non sbaglia un colpo.
Do the evolution e Porch sono le furenti scosse prima dell’incantevole duetto che riporta sul palco Ben Harper: Red Mosquito, raccoglie consensi e prepara il pubblico alla delicatissima ed intensa Just breathe. Il pubblico è raccolto, emozionato, e la voce di Vedder risuona come la voce di un fratello, di qualcuno che si conosce davvero bene.
E’ il tempo di Jeremy, praticamente il simbolo di una generazione che vuole cambiare raccontando la vita ed il disagio, perchè da lì bisogna partire, dal fondo per poi risalire. Ten è il primo album della band ed è anche quello tuttora più suonato nei live: ogni volta i brani trovano casa negli anni che scorrono, senza mai perdere di attualità e vitalità. Once, Black (come sempre culmine di emozione), Alive: questi sono gli ultimi brani di marchio PJ del concerto intermezzati solo dalla ricercata e riuscita cover di Public image dei Pil di Johnny “Rotten” Lydon.
Un colpo al cuore da parte di una band che dimostrava sul palco di divertirsi, di avere qualcosa da dire, di essere contenta che gli organizzatori aspettavano 25.000 persone ed invece se ne trovano davanti 40.000.
Lo spettacolo è stato grandioso ed il clima creatosi ancora di più. Un mare a cantare la musica che non muore, quella che dagli anni ’90 non perde significato e brillantezza, quella di cinque artisti che si donano al pubblico come il pubblico si dona a loro. Semplicemente alla pari. Persone che invecchiano insieme al pubblico, che accolgono i più giovani senza alterità: uno scambio, senza tanti fronzoli.
Vedder, come suo solito, ha parlato tanto, raccontando come negli anni ’90 agli esordi l’Italia sembrava loro lontana come la Luna ed ora sono felici di avere trovato un posto sulla Luna. E non sembra una sviolinata.
I Pearl Jam sono un esempio per tante band, per lucidità, professionalità e capacità artistiche, ed è bello ritrovarsi così in tanti a pensare lo stesso e ad assorbire quanto di buono hanno da offrirci. Questo non è fanatismo, ma un semplice “dare a Cesare quel che è di Cesare”, in un mondo musicale pieno di “fuffa” le canzoni, le parole, le note e gli sguardi, quelli veri, vanno preservati ed ostentati, sperando in un mondo libero, proprio come tutti insieme, Pearl Jam, Ben Harper e i suoi Relentless7 ci ricordano con Rockin’ in a free world.
E così fu davvero una splendida “buona notte”. (Foto di Alessandra Di Gregorio; Lost Gallery)