Si è conclusa nell’incantevole quadretto cinquecentesco della Fortezza Medicea di Arezzo e nel suo bel parco, fra luci colorate, pose dandy e spensieratezze d’antan, questa quarta edizione dell’Arezzo Play Art Festival, gran galà dedicato tutto alla musica, ma anche al teatro, alla letteratura e alla danza. Si conclude proponendo un tributo ad un altro mito della musica contemporanea (visto che al “mito” è dedicata l’edizione di quest’anno del festival), quello del pop indipendente che non può avere in altri se non negli scozzesi Belle and Sebastian tra i suoi più grandi esponenti a livello internazionale, qui ad Arezzo nella loro unica tappa italiana. E la risposta nostrana è per una volta (e checché se ne dica) tutt’altro che timida, indipendente per attitudine e lustro intellettuale con i Baustelle di Francesco Bianconi. Un mito che da sommerso si fa grande happening, da sotterraneo brilla di luce propria e illumina i migliaia di volti dei presenti al concerto.
Il concerto si apre, intorno alle 20, con la frizzante e graffiante musica degli italo-americani Nexus. La band si propone con un rock immediato ed accattivante, senza tanti fronzoli. Taglienti riff di chitarra ed una batteria puntuale riescono a fondersi con una efficace ricerca della melodia. La presenza scenica è di impatto, con un brillante cambio di ruoli tra batteria e voce durante l’ultimo brano (Bombin’ Teheran) della potente esibizione dei Nexus, una band che non sconvolgerà il panorama musicale, ma alla quale non mancheranno le occasioni per dimostrare le proprie capacità. Segnatevi il loro nome.
Subito dopo arriva sul palco Samuel Katarro, a presentare brani del suo ultimo The Halfduck mistery in formazione allargata: ad accompagnarlo ci sono Wassilij Kropotkin al violino ed alla chitarra elettrica, insieme a Simone Vassallo alla batteria. Un live troppo breve il suo, quindici minuti di gloria che sarebbero dovuti essere di più, perché l’impatto sonoro è davvero esaltante. Con l’accompagnamento di violino e batteria, mentre percuote la sua chitarra l’artista sembra più preciso, concentrato ed elegante, tutto il set è più equilibrato e tra i musicisti c’è ottimo affiatamento. Pop skull, Pink clouds over the semipapero e I am the musonator non bastano: Samuel Katarro sembra aver trovato nuova energia e un nuovo forte e diretto linguaggio ed è un peccato non goderne più a lungo.
E’ il tempo de La Fame di Camilla e del rapidissimo sound-check prima dell’esibizione: una manciata di brani in cui si mette in mostra la bravura tecnica di una band che non ha molto di nuovo da dire, melodicamente come nei testi, a tratti davvero facilotti. Per la band pugliese un live che è apparso come una “tappa” e non come un’esibizione, di poco impatto ed affrettato nella preparazione, con i suoni non perfetti. Purtroppo la band si è dimostrata fuori contesto rispetto al festival, anche se capace di far cantare al pubblico la hit sanremese (e comunque questo qualcosa significherà). Non lasciano il segno, nel bene e tantomeno nel male: scendono dal palco e un attimo dopo li hai già dimenticati.
Poco dopo le 21 la vera facciata italiana della pagina si presenta elegante, convinta e convincente, perché a calpestare il palco è il gruppo pop più ispirato e rappresentativo del Bel Paese: i Baustelle. Il palco è affollato: il nucleo originale della band è accompagnato da Alessandro Maiorino, Ettore Bianconi, Diego Palazzo, Paolo Inserra e dal polistrumentista Roberto Romano.
I Provinciali è l’incipit e la dichiarazione d’intenti, la produzione è finalmente all’altezza della loro esibizione e Francesco non sbaglia nulla davvero, vestendo ottimamente i panni del cantautore raffinato, meditatamente distaccato ed imperfetto, tanto da concedersi il lusso di infilare in scaletta, dopo una sfilza di brani da adrenalina come Le Rane, Gli Spietati e La Guerra è Finita, le lunghe confessioni esistenzialiste de La Canzone del Parco o l’intimismo onirico stile Tenco della stupenda Il Sottoscritto.
Rispetto al precedente tour si registra un grosso cambiamento. La scaletta finalmente si rinnova e attinge non più solamente dagli ultimi album, ma anche dai precedenti (capo)lavori della band di Montepulciano. La storia dei Baustelle si ripresenta ai fan della prima e dell’ultima ora, senza distinzioni. E fa piacere sentire pietre miliari della band, da La moda del lento alla magnifica En passando per La canzone del parco, rivivere in nuova veste: tutti i brani sono stati riarrangiati e appaiono ora in un insieme di suono variegato ma coerente. C’è tempo da dedicare ovviamente anche ai brani dell’ultimo I mistici dell’occidente che, a dispetto di alcune critiche fredde e degli snobismi di alcuni, si conferma un album ricco e maturo, ed incontra il pieno favore del pubblico aretino.
L’impronta della formazione toscana si delinea chiaramente e imposta il live su sonorità ricche ma mai stucchevoli. Bianconi è in gran forma e ritrova tutte le proprie abilità canore e il suo carisma; fuori dal ruolo di cantautore maudit, si muove liberamente sul palco e sulle sue musiche, rubando un po’ di spazio a Rachele Bastreghi che in questo set è più musicista che cantante. Affiatamento eccezionale ed ottima resa scenica: un’esibizione che rasenta la perfezione per una delle band più importanti e discusse del panorama italiano, che sembra trovare, in questo tour, nuova redenta vitalità.
Cambio palco. Cambio di mood, di scenario, di pensieri, di prospettiva. Basta poco. Un arpeggio di chitarra jangle e luminoso, melodie a levitare leggere, una t-shirt degli Smiths, un violoncello. E le rimembranze solite verde pastello, il vinile della ragazza dai capelli a maschietto che allatta il tigrotto peluche che hai in cameretta, quel fottuto dolcissimo far niente… tutto torna in mente fluido e leggero, non hai tempo per razionalizzare, ti lasci scorrere. Belle incontra ancora Sebastian, sembra quasi non si conoscano affatto, ma ogni volta è come la prima volta. Loro son qui, la diafana dolcezza bisbigliata di Sarah Martin, l’ironico estro sornione di Stevie Jackson, la melodia che non dimenticherai mai, la voglia di muoverti sgraziato sul ritmo che incalza, la Scozia del pop, la bellezza del canto: Stuart Mardoch.
In apertura I Didn’t See It Coming, brano di nuova produzione per rubarti il fiato su una melodia dolcissima che vorresti saper cantare mentre dondoli il capo, per poi lasciare il terreno a brani come I’m a Cuckoo e Step Into My Office, Baby pescati dal loro canzoniere più recente, quello meno folky e maturato sulla sponda di un estro tutto brit e beatlesiano, che in versione live arriva ottimamente a meta. Non mancano episodi del loro passato meno recente tratti da quel If You’re Feeling Sinister che fece epoca, su tutte l’incalzante cinematica Like Dylan in the Movies, le dolcezze ovattate e intime di Fox in the Snow, l’inno generazionale sensibile di Get Me Away From Here, I’m Dying. Su The Boy With the Arab Strap Arezzo si fa un po’ Glasgow, la Toscana diventa un po’ la Scozia ed evadere diventa davvero così semplice. Tra i motivetti di nuovissimo spolvero Stevie ci fa assaggiare la sua nuova potenziale hit autunnale, la filastrocca da stadio di I’m Not Living In The Real World che poi sei destinato a tenerti appiccicata ai timpani per ore. Il concerto non ha tempi morti, il coinvolgimento è assicurato al punto che Stuart invita finanche due ragazze dal pubblico sul palco a coadiuvare i suoi balletti “attempati”, mentre lui si defila alle tastiere.
Gli anni non tolgono ai Belle and Sebastian freschezza, il pubblico aretino questo lo percepisce e si dimostra caloroso e presente ad ogni brano. E’ una grande festa, un lungo inno all’autenticità, al mito del pop che sa trovare sempre gli strumenti per arrivare al cuore di tutti, sa trovarne il tempo. Un’occasione per tornare sulle vecchie cose, soffermarsi sulle emozioni buone, sui ricordi migliori da collezione. La dimostrazione bislacca e primitiva che c’è sempre tempo per innamorarsi. (In collaborazione con Giulia Gasparato e Emanuele Gessi; si ringrazia David Bonato – Davvero Comunicazione; Lost Gallery)