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Tohu-Bohu – Ulan Bator

ulan_batorE’ giusto che l’arte sappia essere anche fastidio. Se non nei suoi precetti profondi, nel linguaggio, nell’approccio e nei mezzi  che spesso sceglie per esteriorizzarsi. Il mondo, sia quello fuori di noi che quello interiore, in fondo non sempre si mostra roseo ed intuibile, le cose che ci circondano sono anzi spesso scomode, ruffiane e ardue a comprendersi. Dov’è scritto dunque che raccontare il mondo e le cose debba necessariamente essere un’esperienza conciliante? I francesi Ulan Bator sono da sempre stati una narrazione tutt’altro che conciliante, ma fastidiosa nel senso più utile ed intellettuale del termine. Il loro ritorno sulle scene dopo quasi sei anni è un fastidiosissimo piacere, perché questo Tohu-Bohu, come e più di prima, è un calderone di spigoli vivi, di atmosfere nervose, di urgenze per nulla sopite. Si parte con il galleggiare nevrotico di Newgame.com dove il basso di Stephane Pigneul pompa in aggressività e smonta la struttura ritmica rendendo l’atmosfera del brano sempre più malsana e pericolante; a seguirla, minimale, luceferina e matematica, Speakerine proietta sul telo bianco asimmetrie alla Barch Psychosis incattivendole con l’umore plumbeo di un black metaller.  Régicide è una pura divagazione noise psichedelica a servizio di un sermone oscuro e depresso nello stile di un Michael Gira, mentre la densa melassa strumentale di R136A1 è un breve sguardo al telescopio a disvelare il panico dolciastro del bambino che guarda le stelle.  Il rock psichedelico di Missy & the Saviour è il polpettone meno fastidioso e più abbordabile dell’intero disco, ed insieme alla successiva A T rappresentano la parentesi meno radicali del lavoro. Ma il fastidio, spesso, nasconde dietro di sè dolcezze inaspettate. E’ ciò che accade in Mister Perfect, offuscato tuffo  onirico in un olimpiade immaginaria, una nuotata distesa e placida lungo il corso di un fiume che sembra citare in silenzio qualche momento, guarda caso, della By this River di Brian Eno. Ding Dingue Dong è una marcia nuziale tumefatta, imbrattata e sepolta da metri e metri di materia onirica sopra di sè. E’ quello che avrebbero suonato al matrimonio di Lydia Lunch se avesse sposato Glenn Branca. La titletrack è dissonanza allo stato brado, una lunga ode agli Swans o ai Sonic Youth, che ad un certo punto viene letteralmente violentata dalle corrosioni free jazz di un sax a ricordare gli Zu. Chiude la melanconica ballad da quattro del mattino di Donne, in barba ad un melodiare timido da chansonnier.
Amaury Cambuzat  torna sulle scene con la sua creatura migliore, proponendo dunque dieci episodi in lingua francese, fondati su un indie rock sperimentale dalla metrica e dall’andamento angolare, ruvido e roccioso, che non concede nulla e non promette nulla a nessuno. In questa avarizia si nascondono palate di coraggio, qualche distrazione  e qualche indulgenza di troppo, ma dire che le aspettative che avevamo per questo disco sono più che soddisfatte è dire davvero poco. Dunque di questo ritorno non possiamo che esserne fastidiosamente entusiasti e consigliarvelo caldamente.

Credits

Label: Acid Cobra – 2010

Line-up: Amaury Cambuzat (vocals, guitar, piano) – James Johnston (guitar, piano) – Stephane Pigneul (bass) – Alessio Gioffredi (drums, percussions)

Tracklist:

  1. newgame.com
  2. Speakerine
  3. Régicide
  4. R136A1
  5. Missy & the Saviour
  6. A T
  7. Mister Perfect
  8. Ding Dingue Dong
  9. Tohu-Bohu (featuring Terry Edwards)
  10. Donne

Links:Sito Ufficiale,MySpace

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