Raccontare il disco d’esordio di un artista, a quasi quarant’anni dall’uscita originale, può presentare di certo qualche rischio. Quello più ricorrente, e quasi mai scansabile del tutto, è di giudicare il lavoro più alla luce degli avvenimenti accaduti sino ad oggi piuttosto che cercare di contestualizzare l’artista e la sua opera nella propria epoca, ponendo la giusta attenzione a quella miriade di fenomeni e correnti che hanno attraversato il panorama musicale (e non) negli anni precedenti. Poiché la convinzione che nulla nasce dal nulla è oramai assodata, diventa importante poter comprendere l’importanza di quel che è accaduto prima. Jackson Browne è oggi uno degli emblemi del songwriting americano ancora in attività; autore, musicista, attivista politico, produttore, con la sua musica, soprattutto negli anni ’70, ha saputo arrivare dritto al cuore della gente fino a poter diventare un vero e proprio simbolo popolare. Sebbene in Italia sia stato paradossalmente portato al successo da Ron attraverso quella pratica molto diffusa nel nostro Paese di tradurre, del tutto liberamente, in italiano brani meno conosciuti di autori stranieri, basta scorrere i suoi lavori, gli artisti che hanno collaborato con lui, i suoi produttori e la sfilza di riconoscimenti e premi vinti per poter farsi un’idea dell’impatto e dell’importanza che ha avuto il suo approccio per un certo corso del cantautorato americano dalla fine degli anni ‘60 in poi. Facciamo un salto indietro. Siamo nel 1972 quando esce il primo album omonimo di Jackson Browne, spesso erroneamente chiamato Saturate Before Using a causa della presenza di questa frase sulla copertina dell’ Lp (era stata concepita come un contenitore per l’acqua, il quale va riempito prima di poter essere utilizzato per la prima volta). È il 1972 che segue la rivoluzione di fine anni sessanta con tanto di disillusione post “flower power”; il 1972 dopo Woodstock, quello del ritorno amaro alla realtà dopo aver creduto di poter avere il mondo ai propri piedi, quello del cambiamento, del risveglio, della presa di coscienza. Ma è anche il 1972 post esplosione del folk. Siamo nel sud della California, a Los Angeles, e l’influenza del Greenwich Village di New York e del suo gotha Bob Dylan si sentono ancora incredibilmente nell’aria. Quella stessa aria che Clyde “Jackson” Browne aveva respirato fin da ragazzino nei locali come l’Ash Groove. Siamo nel 1972 eppure Jackson Browne non è propriamente un esordiente. Infatti, era già un autore piuttosto apprezzato e conosciuto nell’ambiente della West Coast. Verso la fine degli anni sessanta aveva già scritto brani e suonato per artisti quali Nico, The Byrds, The Eagles, Tim Buckley, Joan Baez, Tom Rush e Nitty Gritty Dirt Band. Aveva, poi, registrato una demo con suoi brani per la Nina Music che mostravano già la sua grande capacità di scrittura e molti verranno utilizzati successivamente nei suoi album. È questo il 1972 del primo disco solista di Jackson Browne. Un disco che, in verità, era già pronto nel 1971 ma il produttore della neonata Asylum Records, un certo David Geffen, preferì ritardarne l’uscita per una strategia di mercato che gli consentì di restare per 23 settimane di fila nella Top 100 Pop Albums di Billboard. Fatto sta che quello che esce nel 1972 non sembra affatto un disco d’esordio e mostra già la grande maturità di un autore destinato ad affermarsi tra i più grandi. Browne si presenta con dieci brani originali, mai eseguiti prima di allora da nessun altro. Si riusciva già ad avvertire il sentore che almeno tre di questi fossero avviati a diventare dei classici. La ballata d’apertura Jamaica Say You Will, accompagnata al piano, ti stende soltanto dopo due versi per poi raggiungere il massimo del pathos quando alla voce di Jackson si aggiungono i cori di David Crosby. È subito evidente l’uso che Jackson fa delle parole e come riesca, attraverso immagini semplici ma incredibilmente evocative, a raccontare di se stesso e dell’idilliaco amore per Jamaica, figlia di un marinaio. Ci sono poi i due singoli estratti dall’album, destinati ad avere discreto successo nelle charts americane: Doctor My Eyes, che esprime la potenza della sua melodia country rock con un ritmo leggermente più sostenuto, e l’altrettanto brillante Rock Me On the Water, di certo più contemplativa e bellissima nei suoi distesi passaggi armonici. Il songwriting di Jackson Browne è colto ma notevolmente sensibile. I suoi brani mostrano subito un grande intimismo, raccontano storie, sentimenti, tragedie personali. Le sue riflessioni sembrano provenire da una grande esperienza e cognizione della vita che pare impossibile possa avere un ragazzo di soli ventiquattro anni. Eppure è incredibile come le sue parole riescano a penetrare nell’animo umano e a diventare di tutti; ognuno le fa sue in un certo modo, ci rispecchia i propri sentimenti, come se Browne sapesse interpretare quel che ognuno di noi ha passato. Parole così intense che sanno fare male ma così profonde da far anche riflettere, sempre pregne di immagini e metafore. C’è il triste abbandono di From Silver Lake e l’addio consapevole di colui che capisce che ha una nuova strada da poter scegliere e dover seguire di My Opening Farewell. Gli arrangiamenti si fanno notare per la propria sobrietà: non sono mai complessi, semplici eppure enormemente funzionali, con strumenti quali la slide guitar, basso, batteria, cori, armonica, archi che non invadono mai la predominanza della forma canzone semplice e diretta, espressa principalmente dalla voce di Browne accompagnata dal piano o dalla chitarra acustica. Bellissima in questo senso la toccante Song For Adam, nella quale la viola sembra davvero accarezzare con dolce malinconia il dolore nelle movenze della voce che esprime il ricordo. Jackson Browne è il cantore emozionale di piccole storie individuali e collettive. E la sua musica è malinconica ma anche fatalista, eppure non tralascia mai la bellezza incredibile delle melodie e delle armonie. Lo dimostrano il grande intimismo delle sue ballate spoglie quali Something Fine e Looking Into You. La sua voce nasale mostra un’intensità affascinante, incantevole, ed è incredibile ascoltarla nel decantare e interpretare i propri brani tanto che non si potrebbe immaginarne una migliore. Nella sua musica si leggono le influenze dei grandi autori americani degli anni ’60, dei suoi contemporanei quali Van Morrison (Under The Falling Sky) e Bruce Springsteen, ma visibilissime sono anche quelle classiche radici country americane che se sei nato ed hai vissuto in quei luoghi ti porti dentro nel modo di scrivere, di cantare, di suonare la chitarra. La maturità di Jackson Browne, già da questo primo lavoro, sta proprio nel riuscire a prendere le influenze soltanto come un punto di partenza e a renderle sue, riuscendo a sviluppare un dato del tutto personale che diverrà peculiare ed inconfondibile. Questo è il Jackson Browne che sa penetrare a fondo e farsi interprete dei sentimenti delle persone. Dopo l’uscita del suo disco d’esordio Rolling Stone scrisse: “La sensibilità di Jackson Browne è romantica nel vero senso del termine: le sue canzoni sono capaci di generare atmosfere ammalianti e cariche di emozione ovunque, e di mantenere questo tono nella mente dell’ascoltatore per molto tempo dopo averle ascoltate”.
Il tempo ci restituirà la verità della sua arte semplice, alcune tra le canzoni più colte e commoventi della musica popolare americana, la definizione di un genere di songwriting, l’onestà, l’emozione, la sua politica personale. Ci restituirà gli splendidi tour e i riconoscimenti internazionali fino ad arrivare ai Grammy, alla Rock ‘n Roll All Of Fame (2004) e alla Songwriter Hall Of Fame (2007). Ma molto di tutto questo ebbe inizio lì, in quel 1972 che magari era soltanto un anno come un altro.
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