Era il 13 gennaio 2006. Hellequin song vedeva la luce dopo le prime tracce lasciate nell’ottobre 2005 dal singolo Fratello gentile. Era d’inverno e il respiro restava appeso alla sera come in dettagli di vesti strappate. Era d’inverno e si sorrideva ai ricordi, alla grotta e al sapore del sangue, a una smorfia fra i denti (Il deserto, Hellequin song). Era un pretesto d’amore, questione di distrazioni, di penne nere e destini nelle mani della storia, di una bugia. E’ il 4 aprile 2008. Storia di Caino vede la luce e rompe il silenzio con la prepotenza che solo una certa onestà può concedersi.
E’ primavera e il respiro lo regaliamo ai miraggi, impalpabile e schivo, ambizioso e lungimirante. E’ primavera e si può chiedere meraviglia, ad ogni passo e cenno, nelle bottiglie fatte a pezzi, al tino della pressa (A tutte ho chiesto meraviglia, Storia di Caino). E’ un appiglio di memoria, faccenda di riflessi e fame, di sogni e sete, di bellezza e dannazioni.
La Casa 139 è il luogo adatto, lo è questa sera, ad ospitare il proemio delle voci di questa Storia, accenti di terra e carità che si impossessano dello spazio e lo tagliano, lo ri-dimensionano, lo strappano perchè il tempo non fugga, non riesca a farlo. Davanti al palco una mezzaluna di pavimento che nessuno vuole occupare, che resta vuota, come vi danzassero loro, le voci, scaltre pellegrine di scritture e attese, con le braccia nude e le mani nere di sorrisi. Sul palco cinque uomini ed i loro talenti, le loro corde, gli ebani, le pelli, i timbri, i metalli, tutto a un passo più uno lontano dalla mediocrità, dal già detto, dal compromesso. Cinque odori dentro all’unico profumo di una voce perfetta, di accordi restituiti al lustro della maestria, di leggi padroneggiate per essere infrante, abusate, consumate. Gli sguardi dei molti giunti qui, occhi attenti e curiosi, afferrano l’occasione di questa musica con il presentimento dell’insolito e di un’elettricità che finirà per ferire, per curare, per avere ragione. E così accade. L’elettricità invade, stempera, si incunea, scuote. Gli agnelli scansa le timidezze e indica la direzione; Canto dell’osso mappa il tragitto. Le caviglie percepiscono il passo e sale alle ginocchia la tensione dei plettri, la vibrazione degli arrangiamenti. A tutte ho chiesto meraviglia mostra l’enigma; Donna al pozzo mantiene la promessa dei ritmi, alza polvere rossa, di bramosia. All’uncino di un sogno porge un calice di protezione: è veleno e antidoto, pugno e carezza. Dalla bisaccia dei segni, dal sacco ai piedi del letto, da quell’inverno di due anni fa, prendono fiato Fratello gentile, Le feste di ieri, Il deserto; ed è il fiato corto, rabbioso, vivo di chi ha rovistato fra le cose e la vita. Pezzi che esigono la fede, trame di nylon e liuti che bestemmiano l’indifferenza, che malmenano l’indolenza, che rigettano il torpore: 19 marzo, Storia di Caino, Per nome. Tutto ri-comincia da qui, dal danno imposto e da quello subito, dal cratere scavato dai resti, dalle prove, con i denti. Apocrifo mette in guardia, cita qualche minuto della marcia d’anime che è la Calavera; lo fa prima che Il fiato corto di Milano ammonisca da capo sulle intenzioni delle casse e del suono, prima che Sul mondo e sulle luci disarmi di delicatezza e armonia, poco prima di lasciare che La suonatrice di hammond tocchi le fronti a misurare febbri, a svelare desideri. E’ giusto il momento in cui, uno ad uno, gli astanti si sentono parte di un tutto che li ha investiti e riconosciuti. E’ il momento del sapore che abbandona la lingua per insegnare al corpo il retrogusto della complicità, di una generosità inusitata, della rabbia quando diventa candore, rivelazione. Uno ad uno, mentre Cesare Basile lo canta, dalla gola alle mani, dalle mani all’eco dei tendini, della pelle, ciascuno di noi confessa: mi piace pensare che tu fai tutto questo per me (Pietra Bianca). Uno ad uno, mentre To speak of love leviga con parole ritrovate i graffi lasciati dalle parole smarrite, siamo in molti a stringere le mani di Rodrigo Derasmo, di Lorenzo Corti, di Marcello Sorge, di Luca Recchia riponendo nell’ascolto, negli applausi, un sentito grazie, un saluto di rispetto, un inchino. Grazie per i blu dei passi lasciati sul palco, per i gialli dell’intesa fra occhi e spalle, per la passione dentro ai giri, ai controcanti di note, alle alternanze, ai chiaro-scuri, a tutto questo rock, a tutto questo folk. Grazie per Dal cranio, per l’amore mimato ed intuito, per la franchezza ed il sudore, per la veduta dall’alto, attraverso, di schianto. Grazie per aver lasciato che i nostri occhi si attardassero sul mondo e sulle vostre luci, fra il danno e lo stupore, a rubarvi un segreto da poter restituire, degno, al sogno.
Ieri sera ho avuto il piacere di ascoltarli a Firenze in una versione più minimale, solo chitarra voce e violino.
E’ stato di una bellezza quasi dolorosa.
Sguardi e brividi.
Scelgo le tue mani
Ossa della vigna
Perché il mosto mi sveli il dolore
Mi son cinto i fianchi
Consumato i denti
Non sapevo pregare ma esigo la fede
Non sapevo pregare ma esigo la fede
Scelgo le tue mani
19 marzo… d’intesa.
Un cuore, tante mani, tanti occhi, tante orecchie sparse in Italia: LostHighways.
Ero lì grazie a te.
Recensione meravigliosa!!!!! molto comunicativa, sentita, piena di passione e voglia di recensire prima di tutto per se stessi e poi per gli altri (cosa che spesso, purtroppo, avviene in ordine invertito..) non posso che porgere complimenti sinceri a chi a scritto ciò che personalmente condivido in pieno… e infine un grazie al nostro Cesare che da anni ci delizia facendoci partecipi della sua “meraviglia”…..
ps. Ciao Fata ci si ribecca anche qui 😉 per caso ho visto le tue foto.. davvero suggestive, davvero..