I tempi sono cupi, oscuri e decadenti. Proprio in questi giorni si ha il bisogno di dare pugni in faccia alla realtà. Agli inizi degli anni ottanta questi pugni furono sferrati contro quella società reaganiana dalla scena americana D.Y.I. Quell’approccio hardcore nel corso degli anni, grazie anche al crepuscolo degli dei, è imploso in manifestazioni più claustrofobiche. Si è passati dai Fugazi ai Neurosis e Melvins. C’è una linea sottile che lega queste due sfere: moti di rabbia e una malinconia dolente e pacata per il disfacimento dei sentimenti. Questa linea si è svelata nel disco omonimo d’esordio dei Pazi Mine, gruppo formato da Alessio Capra (Super Elastic Bubble Plastic) e Sara Ardizzoni (Pilar Ternera). Perché il loro disco merita attenzione? Semplice, coagula in sè un’attitudine rock-hardcore notevole sapientemente miscelata dalla supervisione di Giovanni Ferliga (Aucan), e dalla masterizzazione di Giulio Favero (One Dimensional Man, Teatro degli Orrori, Zu, Putiferio) e Giovanni Versari. LostHighways oltre ad averli selezionati nella compilation Bottom of Light ha avuto anche il piacere di approfondirne il progetto con la cantante Sara Ardizzoni e il chitarrista Marco Beiato.
Il primo aspetto che colpisce del vostro disco è la robustezza della base ritmica, un asse basso-batteria poderoso su cui si incastonano a meraviglia le trame di chitarra. Essenzialmente la vostra matrice sembra essere quella noise, ma la vostra originalità, se mi posso permettere, è lo spazio che riuscite sempre a concedere alla melodia. Quali sono i cardini della vostro approccio nella scrittura dei brani?
Sara: Ci fa piacere! Allora siamo riusciti a trasmettere quello che avevamo in mente, una sorta di “potenza strutturata”. I brani del disco hanno avuto tutti un’origine piuttosto diversa, alcuni me li portavo dietro da tempo sotto forma di bozze casalinghe di chitarre e voce (come Here, Square the Circles, Standstill), altri come ad esempio Dissect si sono sviluppati e avvolti attorno al giro di basso, altri ancora come Witness nascono da alcune parti di batteria.. Il bello di suonare insieme e poi vedere come le idee di base vengano stravolte , ed è anche la cosa che costa tempo e fatica.
Marco: la composizione ha degli equilibri, se vuoi dare potenza devi trovare anche profondità, ma anche dai contrasti come l’assenza di melodia o l’assenza di ritmo… non parlerei di un “approccio”, quello che faccio è far uscire dal suono quella sensazione, emozione o atmosfera che voglio comunicare e questo richiede istinto e immediatezza ma anche metodica, ricerca e preparazione nella stessa misura.
I vostri testi mi sembrano avvolti da una certa vena introspettiva che ben si collima al vostro sound. Come nascono e su quali punti chiave vertono i vostri testi?
Sara: Mi fa piacere anche questo, e mi piacere che tu li abbia letti, dato che non sono in italiano. A volte quando nasce la parte musicale ho già in mente di cosa parlare, vedi Here, alte volte è proprio la musica a darmi delle suggestioni per scrivere, è il caso di Witness of a recurring dream. La tensione generata dai giri di batteria di Alessio mi dava sempre l’impressione di sentirsi inseguiti e braccati, e così ne ho scritto, non riferendomi ad una fuga da un luogo fisico ma, per usare parole banali, da “fantasmi interiori”. E comunque quasi tutti i testi si riferiscono a stati d’ansia, per le cause più disparate ne siamo tutti permeati.
Mi è piaciuto tantissimo Square the Circles. Come è nato questo brano?
Sara: Come ti dicevo, ha una genesi antica. L’avevo scritto anni fa ormai, registrando in maniera casalinga le parti di chitarra, voce e una primordiale batteria. La struttura è rimasta più o meno fedele all’originale, ma chiaramente la trama si è arricchita con l’apporto di tutti. Anche dal riferimento del titolo, dal testo, dal tema e dalla struttura lo definirei un pezzo “circolare”.
Marco: L’ha scritto interamente Sara, io posso solo dire che ho cercato, aggiungendo le mie parti di chitarra, di dare profondità e di lasciarmi trasportare nella direzione che sentivo e che voleva lo stesso brano… è stato puro istinto, a differenza di molti altri brani, le prime parti che ho preparato sono rimaste invariate fino alla registrazione.
La vostra band ha avuto una storia un po’ travagliata a livello di line-up. In definitiva è figlia di esperienze parallele come i Super Elastic Bubble Plastic e i Pilar Ternera. Quanto di queste due band c’è nel progetto Pazi Mine?
Sara: Sì, molto travagliata, ma se le cose fossero facili forse ormai mi annoierei! Scherzi a parte, per quanto mi riguarda almeno dei Pilar Ternera non c’è molto, a livello musicale almeno, del resto nei vari progetti che porto avanti mi piace fare cose diversissime l’una dall’altra, ci sono troppi territori che ancora vorrei esplorare.. A livello caratteriale direi che resta presente una bella determinazione e una certa meticolosità negli arrangiamenti. Per quanto riguarda i SEBP di sicuro Alessio si è portato dietro “la pacca”, anche se il suo modo di suonare con noi l’ha portato anche verso altri lidi.
Marco: Non sento la presenza del suono di queste due band, nonostante due componenti dei Pazi Mine ne facciano parte, come non sento la presenza di altre band di cui abbiamo fatto perte io e Francesco…f orse si può dire che, se anche ci fosse qualche riferimento (magari riguardo ai singoli strumenti o a qualche dettaglio), verrebbe miscelato a tal punto col resto che non sarebbe rintracciabile, comunque vedo e sento Pazi Mine come un’entità musicale indipendente.
Le strutture armoniche dei vostri pezzi forse avrebbero funzionato anche con testi in Italiano. Perché avete scelto l’inglese?
Sara: Forse sì, alla fine tutto può funzionare con tutto se fatto con gusto e sensibilità. Ad ogni modo penso che non userò l’italiano finchè non mi verrà spontaneo farlo, ed al momento l’ipotesi è un po’ lontana. A dire il vero neanche mi sto ponendo il “problema”. Non è che alla base della scelta ci sia un fattore culturale, esterofilo o di marketing, è solamente quello che mi è venuto più naturale, probabilmente perché l’inglese, foneticamente, lo sento più “adattabile” e fluido, ma questo è il mio gusto personale.
Marco: La questione è discutibile, anche se molto di moda ultimamente. Ampliando il discorso, sicuramente una persona nata in Italia ha più dimestichezza con la sua lingua, ma non per questo è scontato che riesca a scrivere e a cantare delle buone parti o a comunicare nel modo giusto con la sua musica, molte persone si dimenticano che la musica a volte è più importante dei testi come è vero che è nato prima il suono della parola. Molti artisti italiani curano tanto i loro testi in madrelingua ma spesso la loro musica lascia parecchio a desiderare. L’inglese inoltre, a mio avviso, dà più libertà di interpretazione e ha meno vincoli.
Il vostro tour prevede date solo in Italia o cercherete di esportare il vostro verbo anche fuori dai confini?
Sara: Speriamo anche all’estero, è un’esperienza che assolutamente vorremmo fare, ci stiamo adoperando, anche se i tempi non sono mai brevi nell’organizzarsi.
Marco: Iil verbo va esportato ovunque vi siano infedeli!
Cinque band che vi hanno ispirato?
Sara: Solo cinque? E come faccio? Allora non mi riferirò agli ascolti musicali di una vita, ma magari restringo il campo alle influenze su questo disco, rintracciabili o meno da chi ascolta… Unwound, Big Black, il Jim O’Rourke di Halfway to a threeway, Ceramic Dog, Fugazi.
Marco: Non che mi hanno ispirato ma che sono entrati nel mio corpo per una reincarnazione: Ink&Dagger, Trans Am, Cocteau Twins, Burzum, Eric Dolphy .
Le illustrazioni di Luca Zampriolo nell’artwork sono particolari. Come è nata l’idea di utilizzarle?
Marco: Luca Zampriolo (www.kallamity.com) le ha fatte apposta per noi ascoltando e ispirandosi ai provini del disco prima della registrazione.
Sara: E ne siamo rimasti davvero entusiasti. Il suo sito merita una visita anche per il suo incredibile lavoro come modellista.