Quando senti che la malinconia ce l’hai cucita addosso e ricamata fra i pensieri può essere una svolta non da poco il realizzare che come forma di esorcismo alla tristezza possano uscirne fuori delle canzoni formidabili. L’Altra, formazione americana di casa a Chicago, è fra coloro i quali hanno capito come farlo, essendo una di quelle esperienze (tra le meno chiacchierate degli ultimi tempi, a dire il vero) che profumano di intimismo e leggiadre movenze quasi naturalmente. Telepathic è il quarto capitolo del loro percorso discografico ed arriva a distanza di sei anni dal loro ultimo Different Days, mantenendo la cifra stilistica su un pop da camera al chiaro di luna, sognante, metafisico, a tratti angustiato e sulla rotta di un passo inappuntabile e costantemente felpato. L’apertura e chiusura del disco sono affidate alle nenie sibaritice per anime migranti di Dark Corners I e II, con una melodia di sax trapuntato da fisarmonica a creare una delle atmosfere tra le più funeste degli ultimi anni. Nell’intimismo folktronico avvolgente di Nothing Can Tear Us Apart le tenui voci di Linsay Anderson e Joseph Costa si annodano in tenerezza accovacciate fra arpeggi di chitarra sognanti e soffici walls-of-noise a ricordare gli Slowdive. A seguire Big Air Kiss in cui una chitarra roots americana prima e un melodiare teso di violino poi punteggiano scansioni melodiche e sognanti alla The Church. Ma è il gelido contorno pianistico di Boys, il suo liquefarsi su uno spoglio arpeggio di acustica fra cui s’insinua senza chieder tempo ne’ spazio una mesta melodia folk, ciò che rinverdisce i fasti di un post-pop metafisico, favolistico, ricco di echi antichi che pesca a larghe mani direttamente dagli afflati d’oltremondo dei Cocteau Twins di Treasure (rintocchi sparuti e sognanti di pianoforte, voci lontanissime a sfumare, arpeggiature aperte, ecc..). L’incedere fiabesco e ultraterreno di brani come Either Was The Other’s Mine (con un’orchestrazione spettrale in odor di classica contemporanea), così come le fascinazioni wave a metriche serrate di When The Ships Sinks, o ancora la gassosità paradisiaca della titletrack sembrano quasi prendere l’abbrivio dal songwriting mitigato di una Tori Amos o addirittura di una Enya depauperata dall’aurea new age. Melodie semplicissime ai limiti della filastrocca, arrangiate in questo modo, seguendo questo ibrido discreto tra musica folk e post rock, divengono ingenuamente solenni (la bellissima Black Wind, l’elettropop definitivo di Winter Loves Summer Sun), come fossero le ultime confessioni di lunghe processioni di sognatori ad esorcizzare l’apocalisse.
Fra le trame di questo Telepathic, insomma, che pecca di pochissimi vizi di forma (tra cui, forse, quello di non giungere facilmente a meta ai primi ascolti), si nasconde una paziente e silenziosa ricerca nei confronti di un pop che, anzichè rincorrere le formule più modaiole, si sforza di battere sentieri più interni e meno visitati. Nell’epoca dei revival spietati (prima quello psichedelico, poi quello new wave ed ora anche quello dell’indiepop, che già di per sè era nato come un revival) c’è chi semplicemente si sforza di fare musica per pura esigenza artistica, proprio nel silenzio dei riflettori dove, come spesso avviene, si nascondono le cose migliori.
Credits
Label: Acuarela/Audioglobe/Unomondo – 2011
Line-up: Linsay Anderson (voce, tastiere) – Joseph Costa (voce, chitarra) – Eben English (batteria) – Ken Dyber (basso)
Tracklist:
- Dark Corners I
- Nothing Can Tear It Apart
- Big Air Kiss
- Boys
- When The Ships Sinks
- Black Wind
- Either Was The Other’s Mine
- Winter Loves Summer Sun
- This Bruise
- Telepathic
- Dark Corners II
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