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Last light on earth – The Junkyards

“Se siamo fortunati, tanto come scrittori che come lettori, finiremo l’ultimo paio di righe di un racconto e resteremo poi seduti un momento o due in silenzio” (Raymond Carver). Se siamo fortunati, tanto come creatori che come fruitori, finirà la musica e resteremo un momento o due in silenzio. Se siamo molto fortunati, avremo sorriso, forse per l’intuizione, forse per la leggerezza. Leggerezza: lo stato d’animo dell’assenza di peso, degli attimi di senso che si dicono al tempo, allo spazio, senza lasciare graffi, senza pretendere il livido, semplicemente porgendo la guancia allo schiaffo della memoria. Si può essere piuma e radice, lo si può essere nei riguardi della folata di vento. Trasportati eppure conficcati al suolo, in viaggio ma fermi a guardare. Non occorre inventare niente. La vita si racconta e si spiega da sola. C’è tutto quello che serve. Mani, sogni, colore, nomi, cognomi, vetro, ferite, il mare, metallo, prati, uomini, seni, compleanni. Basta una polaroid. Basta scattare, senza troppi riguardi per le pose, i contrasti, l’esposizione. Finisce che quella foto è perfetta. Si tratti di una caduta, di un bacio, di un’assenza, di un passo di danza a metà: la foto è perfetta. Intonata, gravida di metafore in carne ed ossa, aneddoto di un istante che li contiene tutti, che non ne sostituisce nessuno. Last light on earth è un delizioso taccuino di racconti brevi, dieci per l’esattezza, scritti, cantati e suonati con la naturalezza e la nudità proprie all’amore quando nasce, si regala, trema odore di terra e colori pastello. L’amore quando nasce: non lo puoi tenere al guinzaglio, non lo domi, ti riempie, ti indovina; lo scrivi d’istinto, non hai tempo per le architetture, lo suoni così com’è, nudo e spietato. Scatti. Ed è una polaroid perfetta, perfetta perché venuta prima del disincanto, dei filtri, dell’abuso. Last light on earth nasce così, un attimo prima di pretendere troppo da se stesso, di cedere alla moda dei modi: ispirate alla tradizione della musica folk, roots e blues americana, le dieci canzoni del disco si susseguono, quasi la forza di gravità non le riguardasse, carveriane e sottili, rievocando l’altrove caro a Johnny Cash, a Mr. E (Eels), a Ben Knox Miller (Low Anthem). Si susseguono e ti scopri a guardarle, a guardarti attorno con i loro occhi. “Seen all my life / In a little glance / Well I recognize / I should have learned to dance” (“Ho visto tutta la mia vita / In un veloce sguardo / Devo ammetterlo / Avrei dovuto imparare a ballare”, Learn to dance – part one). O sono loro che vedono te, che ti guardano. Non saprei dirlo. So solo che poi taci, per un momento o forse due (ed è un tacere blu, con uno strappo rosso).

Credits

Label: Autoprodotto – 2011

Line-up: Fabrizio Coppola (vocals, acoustic and electric guitars, acoustic piano, electric piano, organ, kazoo, harmonica, bottle, whistle, hand claps, percussion) – Paolo Soffiantini (drums, percussion, goat nails, backing vocals, hand claps) – Marco Ferrara (double bass, hand claps). Tutte le canzoni: Fabrizio Coppola. Registrato da Giuliano Dottori & Max Lotti @ Jacuzi Studio, Milano. Mixato e masterizzato da Max Lotti. Cover Last night on earth (oil on canvas, 2011) di Gaia Grassi. Artwork Antonella Paulon

Tracklist:

  1. Learn to dance – part one
  2. Last light on hearth
  3. Fireworks over Chicago
  4. Aberdeen
  5. Way out across the border
  6. The Junkyard of Nonbelievers
  7. I need a hammer
  8. Every morning I give up
  9. Won’t let go
  10. Learn to dance – part two

Links:Sito,MySpace

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