Il caldo tepore primaverile invita a cercare un ritaglio d’ombra e ad assaporare la freschezza di un frutto di stagione tra le retrovie del Neverland. Questo è l’ambiente che accoglie Cristiano Godano, leader dei Marlene Kuntz, durante questa intensa chiacchierata. Il tempo si dilata davanti ai temi cari a LostHighways e vitali per Godano. Sono parole che contengono in sé l’essenza della musica. Sono note che ridisegnano lettere curate senza ossessione. In un quarto d’ora Godano ha saputo definire, con l’elegante leggerezza di cui ha intriso la sua carriera, il concetto di misura. Banditi gli eccessi a favore di un’umana e sapiente ragione, i Marlene Kuntz svelano a LostHighways il pensiero illuminato sui cui si fonda la loro produzione, tra canzoni, poesie e prosa. (In collaborazione con Emanuele Gessi e Ilaria Agrò)
Headliner della seconda serata del Neverland. Performer sul palco del Primo Maggio. In queste occasioni il pubblico si divide, quanto a presenza, per i diversi artisti. Come cambia, se cambia, il vostro approccio al palco e al pubblico stesso in queste situazioni?
In un’occasione come quella di questa sera non cambia. Poco fa ho chiesto quanto dobbiamo suonare, perché nei festival ti dicono quanto devi suonare, e ci hanno detto che abbiamo tutto il tempo che vogliamo. Quindi facciamo il nostro concerto. Nel caso del Primo Maggio si cerca sempre di fare una scelta che soddisfi a priori un sacco di esigenze, che vada incontro al minor numero di problemi possibile. Si scelgono pezzi che non creino problemi sul palco dal punto di vista tecnico, perché suonare al Primo Maggio è un delirio: tutti i gruppi ne escono mediamente dispiaciuti, incazzati. Noi giovedì siamo usciti incazzati perché non ci si sentiva bene e non ci piaceva molto com’è venuto il sound in televisione. Ma sono cose che sappiamo perché non è facile: c’è una diretta, ci sono milioni di gruppi. Si è fatto vedere anche in quest’edizione, anche durante lo spettacolo, che mentre da una parte c’è un gruppo che performa, dall’altra si cambiano i set. Cioè il palco è strutturato in un determinato modo: noi su una piattaforma rotonda divisa in due e intanto al di là di una certa barriera c’è tutto un lavorio di gente. È come un cambio gomme. Solo che sai… quelli che cambiano le gomme alle auto nei gran premi lo fanno di lavoro e sono mirati a fare quello. In realtà, soprattutto gruppi come il nostro che non sono abituati a questo tipo di platee così immense, non sono strutturati per fare una cosa che capita magari una volta all’anno, quindi è più difficile. Si scelgono pezzi che non danno problemi e si cercano anche dei pezzi che piacciono a più gente possibile… è inutile andare a fare le cose che nessuno conosce o che conosce il 12% dei tuoi fan, ovvero 25 persone nella piazza del Primo Maggio. Bisogna cercare chiaramente di suonare i pezzi un po’ più famosi. In genere quando hai roba nuova la vuoi far sentire e quella è un’occasione per farla sentire a tanta gente e allora da una parte metti roba nuova e dall’altra metti uno o due pezzi di vecchio repertorio: quelli sono già consolidati nella testa della gente e quando partono quelli è tutto un po’ più “garantito”.
Uno. L’Uno è declinato per tutto il disco come forza di moltiplicazione di due anime e come tormento di divisione di due corpi. È una teoria antitetica.
In realtà, visto che il contesto in cui questa declinazione viene fatta è l’amore, questa per me è un po’ la dimostrazione del tormento e dell’estasi dell’amore. O dell’incanto e della dannazione. L’amore è questo per me. L’amore esiste e ti incanta, però purtroppo dopo un po’ ti danna.
Come in Musa: l’amore che travolge, che genera ogni forza e contamina di sé tutto ciò che sfiora. Inconsciamente. Inconsapevolmente. Eppure è previsto che possa anche finire. È una visione piuttosto fatalista.
Ma io sono uno un po’ così. Io non mi lascio mai andare completamente in quasi nulla di ciò che faccio. Ho una parte di me che tende proprio a razionalizzare le cose e a non raccontarsi palle, quindi sull’amore ho riflettuto molto e so che le cose, dal mio punto di vista, stanno così. Di me mi piace dire che sono un artista con la testa per aria e i piedi per terra.
Le prime parole del disco sono: “sto perdendoti… / (e quando questo accadrà / il demonio del grande rammarico / il mio girovagare dovrà / fuggire ovunque, / inseguito dalla colpa)”. Traslando questo discorso sulla vostra carriera, esistono, col senno di poi, del rammarico e delle colpe per qualcosa che avreste potuto o voluto fare e non avete fatto?
Credo che ci siano, se mi mettessi a riflettere, momenti in cui la rabbia ci ha portato a ragionare. Anche sul palco del Primo Maggio avremmo voluto fare un’esibizione migliore, senza problemi dal punto di vista tecnico: ci sono stati due, tre problemi veramente assurdi, è successa una cosa che non è mai capitata prima, sempre di natura tecnica. Queste sono cose che vorresti non succedessero. Vorresti poterle rifare, però fanno parte del percorso in fondo. Alla fine eravamo al concerto del Primo Maggio come gruppo di rilievo della scena rock nazionale, quindi vuol dire che il nostro percorso ci ha portati lì: è stato più positivo che negativo allora! Fa parte dei su e giù dell’esistenza sostanzialmente. È un po’ come chiedere se si potesse rivivere una vita senza negatività. Forse sì. Però credo che non sia facile
Godano scrittore. Intitoli il tuo libro I vivi. Tutto ha inizio da una lettera scritta dal protagonista che a sua volta genera una cascata di eventi. Pensi che sia ancora viva la Parola? In quali forme?
Trovo che la parola sia un po’ meno viva. Lo dimostra “lo stupore” con cui, quando si parla del mio libro, si dice “è attento alla parola” sottolineando quindi che non è quello che succede oggi. Io sono attento alla parola, non con la pedanteria che è competenza del filologo, dello studioso, ma come un amante della voluttà della costruzione della frase. E la parola cerco proprio di variarla perché, in quanto lettore, mi incanta una prosa ricca. Quindi vado dietro a questa inclinazione molto semplicemente. C’è un aspetto di vanità, ma è minimo: l’artista è vanitoso, altrimenti non farebbe l’artista. L’artista in fondo lavora alle sue cose e cerca di renderle belle. È un’attitudine, uno schema d’azione. Quindi è ovvio che l’artista sia un po’ vanitoso, sarebbe ridicolo non pensarlo. Però non è un’ostentazione fine a se stessa o, per così dire, non si tratta meramente di estetica della parola. La parola, per me, anche quando la cerco nel linguaggio in prosa, assolve sempre a un compito ben preciso, che è tipico e proprio della poesia, cioè significare e suonare allo stesso tempo. Nella poesia questo è come da statuto quasi; nella prosa per me è così, per molti sicuramente no. Tutto ciò che si scrive oggi a me mediamente non piace molto. Un autore che a me piace tantissimo è John Updike, uno scrittore americano: è il contrario del minimalismo, dell’essenza. La sua frase è ricca. La sua frase è costruita in modo quasi funambolico, però c’è dentro un sacco di roba. Ci sono dentro un sacco di odori, un sacco di sensazioni, un sacco di perizia proprio nel gestire il ritmo della frase. Ma queste sono le cose che mi interessano. Per questo, secondo me, la parola è un po’ meno viva.
In più di un’occasione vi siete esibiti con l’attore Claudio Santamaria. Avete proposto un tour nei teatri di tutta Italia, dimostrando come le diverse arti possano non solo abbracciarsi ma anche sconfinare e sciogliersi l’una nell’altra. Qual è il vostro rapporto con il cinema, la televisione e il teatro?
Nessuno di noi è un frequentatore dei teatri, noi non seguiamo la stagione teatrale. Però se vedo un buon concerto a teatro al giorno d’oggi sto proprio bene. Sono felice di sedermi in un teatro e godermi della buona musica seduto. E ho il diritto di sperare che il mio pubblico goda della mia stessa felicità. Per fargliela godere i Marlene Kuntz devono sapere suonare bene. Siamo all’inizio di un percorso che andrà ancora molto in quella direzione. Per cui le persone che ancora vogliono gli orsi Marlene Kuntz si rassegnino (ride) altrimenti cambino gruppo, ascoltino il noise di altri. Noi non siamo interessati al noise, siamo interessati ad altro. E poi il noise lo facciamo: facciamo sperimentazioni, facciamo sonorizzazioni di film muti, vengano a vederci in quell’occasione e li seppelliamo di rumore e onde. Però quando noi componiamo in sala prove… proprio non ci interessa massacrarci le orecchie, non ci interessa mettere i tappi nelle orecchie per non farci del male. Abbiamo voglia di altro. Ascoltiamo altro. Quindi andiamo in quella direzione. La televisione, invece è un luogo che non ci piace molto nella nostra esibizione. La televisione è proprio difficile da gestire. La televisione è spietata nei confronti di gruppi come il nostro, con il nostro tipo di attitudine. Io sono un cantante che spesso stona, ma un sacco di miei colleghi stonano, perché abbiamo altre esigenze da tradurre nelle nostre performance. Inseguiamo un aspetto vitale del rock che è la sensualità, l’animalità, il muoversi, l’urlare, in modo a volte anche esasperato. E questo, se vuoi andare a fare bene, in televisione non te lo puoi permettere, devi proprio impostare la tua carriera in un altro modo, sempre che tu te lo possa concedere per la tua dotazione naturale. La televisione quindi fa male a volte a gruppi come il nostro. Però poi siamo sufficientemente menefreghisti da andare se c’è da andare. L’importante è che ci facciano suonare! Questo teoricamente è masochistico, perché potrebbe funzionare meglio un playback nei nostri confronti, così si evitano i problemi. Però si va per dimostrare che noi suoniamo e non facciamo il playback. Poi magari un giorno lo faremo anche; al giorno d’oggi non è nemmeno grave. Ho visto gruppi che adoro fare playback, e non parlo di gruppi italiani ma stranieri, e quelli che adoro si sa quali sono. Ormai le cose sono diverse da vent’anni fa. Poi non abbiamo più veramente molto da dimostrare, si sa quello che sappiamo fare. Possiamo solo migliorare e va bene.