Home / Editoriali / Una vita da anfibio: intervista a Federico Ferri

Una vita da anfibio: intervista a Federico Ferri

Federico Ferri per adesso è semplicemente un nome. Ha la sua storia da raccontare e ha scelto LostHighways per farlo. Perché si decide di incontrare gli altri usando come mezzo di comunicazione la musica? Forse perché la musica per certe persone è molto di più di quello che i tempi di oggi, votati al consumo veloce, vogliono farci credere. Classe 1973, Federico Ferri sceglie di mettersi in gioco con I funamboli, suo ep d’esordio in uscita il 22 ottobre, affidandosi alla produzione artistica di un certo Giuliano Dottori, cantautore e chitarrista degli Amor Fou (tanto per dire!). Vi invitiamo a fermarvi qualche minuto, per leggere, ascoltare e scaricare gratuitamente il singolo che vi presentiamo in anteprima, così che un nome non resti solo tale. (I funamboli è in streaming e download autorizzati; foto 1 di Ila Scattina, foto 2-3 di Laura Fazzini)

Chi è Federico Ferri? Quando e perché decide, ad un certo punto, di uscire dal guscio e di fare musica propria?
Insegno filosofia e storia in un liceo di Milano e il mio lavoro mi piace da matti. Ma non mi basta.
Ti devo dire, però, che non c’è stato un momento preciso in cui ho deciso di uscire dal guscio: mi è sempre stato chiaro, da quando avevo quattordici anni e mi feci regalare una chitarra per musicare le mie parole (rigorosamente in inglese, allora), che avrei condotto una vita da anfibio. Tra la terra del lavoro intellettuale e le ondate di piena della musica. Poi le cose sono effettivamente andate così, e le canzoni sono sempre state una specie di fiume carsico che a tratti affiorava tra i miei progetti e si lasciava ascoltare. In modo piuttosto casuale, quindi, un pomeriggio dell’anno scorso, proprio in questo periodo, ho telefonato al mio vecchio amico Mauro Sansone, col quale avevo condiviso sala prove e progetto musicale tra la fine dei Novanta e l’inizio degli Zero, e gli ho chiesto se gli andasse di riprovare a fare qualcosa assieme. Ci siamo visti e lui mi ha suggerito di fare ascoltare il materiale a Giuliano Dottori, col quale collaborava stabilmente da un po’. Ed eccoci qui.

Parole in italiano, ma musica in inglese. Spiegami quel “ma”…
Credo che derivi dalle tonnellate di prog anni Settanta che mi sono macinato da adolescente e dal mio viscerale amore per i Beatles, che per molto tempo mi hanno tenuto lontano da tutto ciò che ha influenzato la tradizione cantautorale italiana (l’America dylaniana, anzitutto, ma anche il Brasile, la canzone francese e il jazz). Insomma, se devo cercare un minimo comune multiplo per tutta la musica che mi emoziona davvero, lo trovo nella grande intuizione di George Martin: reinventare il pop, fondendone (e modificandone geneticamente) le radici blues con il linguaggio della tradizione classica europea. Questa prospettiva sul pop, perfettamente “inglese” e anni luce lontana (non “migliore”, per carità) dall’approccio musicale di un Guccini o di un De Gregori, è anche la mia. O meglio, è quella dalla quale anche io tento di guardare il pentagramma.

Chi sono i funamboli che danno il titolo al tuo ep d’esordio?
Adesso faccio come Venditti e mi metto a citare Kundera, che ne L’insostenibile leggerezza dell’essere, se non ricordo male, mette in bocca a un suo personaggio parole di questo tipo: “Nessun uomo ha una missione”. Tomas le pronuncia come un oracolo, come chi ha scoperto una verità. Mi verrebbe da girarle così: nessun uomo dovrebbe avere un progetto, una vocazione cui restare fedele. Per vivere così, però, bisogna tenersi un po’ distanti dalle cose, dalle persone, dagli affetti: guardarli dall’alto, come in equilibrio su una fune, magari lasciarsi sfiorare, ma stando ben attenti a non spostare troppo il baricentro verso l’esterno, perché altrimenti si rischierebbe di perdere tutta quella bella libertà. Ma siamo proprio sicuri che essere liberi significhi non avere legami?

Questo ep racchiude tre canzoni sull’amore ai tempi dell’individualismo e una sul peso delle parole. Mi racconti queste tematiche?
Blue fotografa la fine (tumultuosa, diciamo così) di un legame di cui, però, si cerca di difendere l’irripetibilità, non tanto dalla rottamazione, quanto dal riciclaggio. Anche Itaca è figlia del funambolismo individualistico. Ne narra però la conseguenza irrevocabile: la solitudine. Il deviatore di parole, invece, è il frutto di un gioco di associazioni libere che, in modo assolutamente inatteso, ha generato una canzone sulle parole che perdono il loro significato e ne acquistano uno nuovo, “misteriosamente” funzionale alla conservazione della società dei consumi e alle finalità del mercato. Nel deserto di senso che ne consegue, comunque, si può lo stesso cercare un’altura da cui inviare segnali a qualcuno che si lasci ancora chiamare “amore”.

A quale dei brani sei più legato e perché?
Itaca, perché grazie ai vestiti che ora indossa (tagliati per lei assieme a Giuliano), ha ritrovato la sua nudità.

Cosa vuol dire sfuggire ai cliché del folk?
Cercare di non fare un disco palloso?

I Genesis hanno un ruolo fondamentale per te, tanto da riferire il tuo anno di nascita all’uscita di Selling England By The Pound. Come confluiscono nel tuo approccio alla creazione di una canzone?
Sì, sono importanti, è vero. Ricordo ancora il momento in cui per la prima volta, da un vecchio compatto dei primi anni Ottanta, uscirono gli accordi tremendi e maestosi dell’intro mellotronica di Watcher Of The Skies (che però è su Foxtrot, non su Selling). Di quei Genesis amo la capacità di tenere insieme gli opposti: passato e presente, comico e tragico, bucolico e inquietante. E poi la perizia nella gestione di strutture complesse. Per esempio io amo molto i cosiddetti “special”, le parti “C” di una canzone (A è la strofa e B il ritornello) e li curo molto. Credo che si tratti di un retaggio genesisiano e gabrieliano, una sorta di resto della forma suite.

Come è avvenuto l’incontro con Giuliano Dottori e come è stato lavorare con lui?
Come ti dicevo me l’ha presentato Mauro e, magia di quella che io chiamo la legge transitiva delle amicizie, mi sono trovato subito a casa. A parte il comune amore per Frankenstein Jr e la sintonia su molti temi, quello che mi ha colpito del lavorare con Giuliano è stata la facilità con cui, divertendoci, abbiamo scovato le soluzioni d’arrangiamento e, poi, la saggezza estetica con cui ha saputo togliere piuttosto che aggiungere. Questo credo sia evidente soprattutto nelle parti vocali e, in particolare, su Itaca, dove mi ha “costretto” a cantare molto trattenuto, con un effetto davvero notevole a livello espressivo, che mai sarei stato in grado di tirare fuori senza la sua guida. Oppure sulla coda strumentale di Blue, dove io avrei infilato “il mondo” e nella quale accadono invece poche, essenziali, cose. Quelle che servono per esaltare il groove quanto basta a equilibrare il romanticismo dei bassi discendenti.

Cosa ti aspetti da questo ep?
Che possa essere un buon primo passo per completare l’album.

Free Download: Clicca QUI

I funamboli – Preview

Ti potrebbe interessare...

The Smile @ Auditorium Roma - Photo Kimberley Ross

The Smile @ Roma Summer Fest, 24 giugno 2024

Arriviamo in trasferta da Napoli poco dopo l’apertura dei cancelli. È una fresca serata estiva, contrariamente …

Leave a Reply