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Il corpo è un foglio bianco e la vita ci scrive sopra: intervista ad Alessandro Raina (Amor Fou)

La seconda giornata del Neverland sta per incominciare. Ultimi soundcheck, ultimi momenti per organizzare il palco. Le scalette sono pronte e gli strumenti già posizionati scalpitano per suonare. Ma c’è ancora tempo per incontrare un più che mai informale Alessadro Raina a rappresentare i suoi Amor ou. Messa da parte la veste elegante degli ultimi live, si presenta con un look più rockeggiante, pronto a respirare a pieni polmoni l’aria del festival. Ancora una volta, Lost Highways raccoglie le parole degli Amor Fou, soffermandosi sulla dimensione live del gruppo ed indagando tra le ragioni che hanno portato a determinate scelte. (In collaborazione con Emanuele Gessi e Ilaria Agrò)

Grandi nomi per questa seconda giornata del Neverland. Voi come vi sentite?
Io penso che sia un po’ un riconoscimento del lavoro che abbiamo fatto. Se già un minimo in un cast così siamo stato presi in considerazione, spero che sia anche una piccola conferma di tutto il lavoro che è stato fatto. Quindi ovviamente siamo molto gratificati..

Una mia personale sensazione. Nei vostri live c’è un’estrema attenzione verso l’errore, da evitare sempre. Anche a costo di trattenersi un po’. Questo è più evidente nel tuo cantato. Poi, al contrario, attraverso i movimenti delle mani e il gioco degli sguardi sembri voler arrivare oltre.
Mah… io da poco ho incominciato a suonare e cantare insieme durante il concerto. Questa è una cosa che non era prevista all’inizio, ma poi si è resa necessaria anche per il fatto che noi gireremo sempre in quattro d’ora in poi. E sinceramente non è la stessa cosa: se tu fai sei mesi di live in un modo e inizi a metabolizzare il palco per quello che fai e che devi cantare senza uno strumento in mano, non è un’inezia. Per cui in questo momento da parte mia c’è pure una fase di apprendimento. Anche perché il disco è stato scritto e registrato in studio, quindi è stato molto poco suonato. Per tutti noi questa è anche una fase di metabolizzazione di quello che abbiamo scritto. Io che sono una persona molto apprensiva, effettivamente sì, cerco di concentrarmi molto sul dettaglio. Quando posso però lasciarmi più andare si vede. Penso che si tratti di una fase transitoria, del tutto dovuta ad un cambiamento di interpretazione del live.

Come nasce la collaborazione con Giuliano Dottori? Resterà una figura aggiunta durante i live o prenderà parte stabilmente alla formazione a partire dal prossimo lavoro?
Questo dipende un po’ da lui. Dottori l’ho conosciuto circa due anni fa, l’ho coinvolto nel mio tour solista e abbiamo fatto molti concerti. Poi è stato molto naturale chiedergli di mettere la sua firma anche sul live di questo gruppo, che era nato con una sola chitarra nelle canzoni. Non amo il discorso dei turnisti. Amo creare delle squadre e poi lavorare con queste. Per questo penso che sia altrettanto naturale che lui entri a far parte del gruppo stabilmente.

Gli Amor fou sono un gruppo emergente. Come avete vissuto la possibilità di avere un’ampia visibilità in televisione, con la partecipazione a Scalo 76?
Mah.. quella è stata una cosa del tutto anomala, nel senso che comunque nessuno si aspettava che in Italia, oggi, nella tv nazionale ci potesse essere uno spazio musicale di quel tipo. Credo sia una somma di fattori. Da un lato, il fatto che nel gruppo c’erano e ci sono dei musicisti già conosciuti molto bene dagli autori e dal pubblico; dall’altro, oggi avendo molti modi di mettersi in luce al di là dei giornali, ad esempio attraverso internet, concerti, passaparola, comunque in qualche modo credo che si possa arrivare anche alla redazione di una trasmissione senza che magari ci sia la casa discografica dietro che spinge. E quindi, in questo caso, io so che è stata una concomitanza di eventi, ovvero l’interesse per un progetto di persone comunque già note agli autori della trasmissione e il fatto che del progetto già si parlasse. Poi penso che si siano anche informati prima, non so, magari è piaciuta anche semplicemente la nostra immagine. Ripeto, è stato sicuramente un concorso di fattori fortunati, nel senso che dopo anche la stessa trasmissione ha dato sempre meno spazio alle realtà più sotterranee. Direi che quindi è andata bene.

Proprio a Scalo 76 avete interpretato il brano La città è vuota di Mina. Come vi relazionate con brani non vostri in genere, e, in questo caso specifico, con un mostro sacro della Canzone italiana come Mina?
Quella fu una storia un po’ curiosa perché noi in realtà non avevamo previsto di portare quel brano. All’ultimo ci fu detto che la puntata era in parte dedicata a Mina e quindi eravamo invitati a proporre qualcosa. E noi ovviamente ci inventammo che già c’erano più brani di Mina nel nostro repertorio per essere certi di non venir esclusi a priori. In realtà quella fu una cosa che noi preparammo in pochissimo tempo, cercando di snaturarla, perché comunque né io sarei in grado di cantare Mina, né Mina rientra nelle nostre corde. Però allo stesso tempo si tratta di un’autrice che è nel nostro DNA di ascoltatori. Personalmente ho pensato a chissà quante persone, quanti cantanti, vocalist, avrebbero sognato di avere almeno una volta la possibilità di interpretare Mina e invece è capitato a me che non avrei mai scelto di cantare Mina, per le mie caratteristiche vocali. Però in quei momenti lì, secondo me, il destino ti mette un po’ alla prova e credo che, avendo registrato degli ottimi feedback, sia stato anche meglio aver avuto l’opportunità di confrontarci con una cosa così, piuttosto che fare solo un playback e tornarcene a casa.
Noi facciamo cover più spesso quando suoniamo in versione acustica: abbiamo una cover di Patty Pravo, una di Renato Zero e ripercorriamo un po’ il cantautorato italiano. Con la band non si è ancora posta questa questione che al limite verrà affrontata per il prossimo disco. Per adesso vogliamo invece lasciare impresso proprio il marchio di questo disco.

Un’ultima domanda, una curiosità. Hai dei vistosi tatuaggi sul corpo. Senza entrare nel tuo vissuto personale, quale significato ricoprono? A quale tipo di esigenza rispondono?
Non mi piacciono i tatuaggi e non mi piacciono le persone tatuate, mi stanno anche un po’ sul culo! Però io ho sempre scritto, sono sempre stato scrittore e mi sono reso conto che, per come è andata la mia vita, in alcuni momenti ci volesse qualcosa che suggellasse un’esperienza forte e che io avessi sotto gli occhi tutti i giorni. Potevo scrivermi davanti al computer o sullo specchio di casa una frase, ma mi sembrava un po’ fuori luogo, anche perché non vivo da solo. E quindi ho pensato che un modo potesse essere scrivere qualcosa su di me: il tuo corpo diventa un foglio bianco e la vita scrive sul tuo corpo delle cose. E quindi l’ho fatto, ho provato e mi è anche poi piaciuto. E mi è proprio piaciuto farlo, la sensazione del tatuaggio è stata piacevole. Poi ho continuato, ma so quando mi fermerò, anche perché non sono molto voluminoso e quindi non ho molto spazio. E tutte le volte è stato deciso appena il giorno prima.

Sono frasi scritte da te, dunque, quelle che hai scelto di tatuarti?
No. Quest’ultima, sul braccio destro, è una frase di Charles Dickens. I primi che ho fatto erano proprio parole: si tratta di due titoli di libri che però rimandavamo a miliardi di altre cose, e qui sul braccio sinistro la parola liberty. Ci sarebbe da parlare per ore dietro ad ognuno. La realtà è che si tratta di una forma di memorandum.

Dei post-it…
Esatto. Però vedi, il posti-it poi si stacca. Sono proprio concepiti male secondo me, perché sulla plastica e su molti altri materiali prima o poi se ne vanno. Quindi, non amando l’henné, ho dovuto tatuarmi.

Grazie Alessandro.
Grazie a te.

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