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La fame di Camilla – La fame di Camilla

Come se tutti avessero conosciuto l’assoluto. L’amore. Come se esistesse un universale dolore e un universale sentire. Perché ascolti questi dieci brani e pensi che nulla poteva descriverti meglio. E tu sei un altro, e un altro è te, e l’identità è unicità ma è anche solidarietà e umanità. “Diversi e pur sempre uguali“. Perché esistono mille menti e molti di più i personaggi. Ma da nudi, da soli, da piccoli osservatori del mondo, non siamo altro che esseri identici che ingoiano aria per vivere. Niente che si ciba di niente.
Poi l’arte dell’esistere ci trasforma in tutto che si ciba di tutto. Ci trasforma in messaggeri o in destinatari.
I La fame di Camilla non sono né l’uno né l’altro. Sono i pensieri, sono l’intenzione. Sono fuori dai giochi. Non sono portavoce. Sono la voce. Sono intatti, sono senza ruolo. Moltissimi riconoscimenti hanno fatto parlare di loro in questo breve percorso artistico. Hanno lasciato il segno in tutto ciò che hanno sfiorato, senza imporsi. Essendo. Abitando.
Interferenze apre questo album omonimo, rivelandosi sin da subito morbido e urgente. Crescente. E si spalanca immediatamente, con Diversi = Diversi. Vorrei che non fosse necessario descriverla. Vorrei che tutti la ascoltassero. Che muovessero la testa come io la muovo. Che sentissero per non sentire. Che tremassero per non tremare. L’Albania è detta anche Paese delle aquile. Ermal Meta arriva da lì in volo, stridente e tagliente. Rapace. Bramoso. Una voce che strazia e ricuce, che geme e placa. Li hanno definiti rock, alternativi, indie. Come al solito io odio definire. E’ come giudicare un’espressione del volto come felice solo perché si sorride. Perdere la sfumatura, il chiaroscuro, la personalità è impossibile, adesso. “Dove sei, ora? Mi cerchi ancora? Nei tuoi sogni, nelle notti insonni? Sono ancora qui…“. Semplice. Vera. Non hanno bisogno di essere ricercati se hanno già la soluzione dell’espressione. Se comunicano anche solo con piccoli giochi di voce in fondo ad una frase, ed accendono la pelle.
Segue Ne doren tende, un brano in albanese, dilatato, liquido, in fruscii e piume slegate. Una lingua friabile e dura di terra, di passi. Di viaggi. Pronunciata con devota appartenenza. Che nasconde significati bianchi, lievi, intarsiati. “Tutto quel che ho perso lo ritroverò sul palmo della tua mano.” Ne doren tende. Sul palmo della tua mano.
Il quarto brano è Song # 1. E’ necessario illudersi per credere. Oppure basta fidarsi. Non si può decidere di farlo. Ma per non perdere la visione dell’incanto si può corrompere la realtà. Si può chiedere un senso, una motivazione, una bandiera per cui vale la pena morire nella lotta.
Storia di una favola apre un immaginario vastissimo, una serie di fotogrammi nei quali immedesimarsi ed immedesimare. L’immagine di una donna che rinuncia per non arrendersi. Di un amore incondizionato che resta al di là di ogni possibile gesto. Di un figlio che è conseguenza degli errori e delle vittorie. Della mancanza e della presenza, della creazione. Come un progetto divino che chiede identità, che la pretende, che la ottiene.
Sono il tuo re ha suoni di echi e di sguardi che si incontrano, che scintillano. Ha suoni che sono richieste, che sono sottomissione e solennità. Sono volontà e desiderio. Speranza che sembra diventare reale con la naturalezza del germogliare. Lentamente. Con voce di vetro soffiato che mostra l’indaco e curva l’arcobaleno. Che mostra vene e corpi che si amano. E non c’è fine nella fine.
Quello di cui non parli mai… La ascolto adesso, e lascio andare le dita. Ma quanto è difficile essere obiettivi se sono così trascinata, implicata. Se sono io. Se sono estranea e sono io. E’ ciò che nascondi e che ritorna. E loro lo fanno ritornare. Con la più materna e dolce delle aggressioni. Per liberare e per far prendere coscienza. “Le parole che non hai voluto ascoltare mai, adesso gridano.”
Piccole cose (che sai ignorare), è il brano che preferisco. Ed è talmente rotondo e lunare, modulato e trasparente, che sembra quasi di sporcarlo per preservarlo. “Le piccole cose che sai ignorare, che fanno di me qualcuno che puoi amare, che rendono te qualcuno da perdonare…”. Credo che ci sia talmente tanto da dire, dietro questo firmamento di parole e note, che posso solo restare in silenzio.
Non chiedermi niente. Una delle prime cose che mi ha colpito, nel modo di cantare di Ermal, è questo suo modo di assaporare le parole. Di tenerle in bocca, di gustarle, di renderle carne, di conservarle impalpabili. Un brano di assoluzione, di riscatto, di reazione. Coraggio e di necessità di essere liberi e reali. Senza inganni che inchiodano le mani.
Ultimo brano, L’amore perfetto, ispirato a La ricerca della felicità. “Quanta forza in un solo sorriso. Quanto amore ho perduto inseguendo quello perfetto.”. E’ la degna conclusione per questo album che ha saputo, in un attimo, divorare e costruire ogni certezza. “I’ll make you see how unfair life can be, between lies and lullabies.”.
Un album acuto, forte. Mi verrebbe da dire banalmente “bellissimo”. E lo dirò. Perché ha senso, ed è giusto. E ancora lo ripeto, che vorrei che si conoscesse questo, che venisse sempre fuori lo stupore e l’incanto. Perché è un’ingiustizia non poter condividere il suono limpidissimo di un lamento.

Credits

Label: Autoprodotto – 2008

Line-up: Ermal Meta (Voce, chitarra, piano, campionamenti) – Giovanni Colatorti (Chitarra, voce) – Dino Rubini (Basso) – Lele Diana (Batteria, sequenze) – Roberto Matarrese (Campionatori, fx)

Tracklist:

  1. Interferenze
  2. Diversi = Diversi
  3. Ne doren tende
  4. Song # 1
  5. Storia di una favola
  6. Sono il tuo re
  7. Quello di cui non parli mai
  8. Piccole cose (che sai ignorare)
  9. Non chiedermi niente
  10. L’amore perfetto

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