Giugno. Eppure sembra che la primavera non voglia smettere il fascino dell’incedere imprevisto per lasciar posto alle iperboli calde dell’estate. Quindi, piove. Piove, ancora. Piove seguendo la direzione del vento che lascia interrogativi tra i rami intricati su un verde che ha voglia di esplodere e non di contrarsi nel grigio che gonfia le nuvole. Colori, comunque. Colori che hanno suoni.
Il pomeriggio spezza il tempo e regala al gioco delle chiusure un varco. Un varco aperto per una promessa, perché le anime belle hanno un senso e non si lascia che la velocità dei giorni le ingoi, dimenticando.
Il pomeriggio sistema una fetta di meraviglia nella piccola saletta del forum Fnac di Napoli: un set acustico di una cantautrice veronese, Veronica Marchi. Un nome, solo un nome. Fino a poco tempo fa.
C’è gente. Volti noti. Il calore di un luogo speciale in cui le note rimangono sempre ancorate all’aria fino a scoppiare. La ricerca di un angolo, ai margini. Un angolo che sia d’ascolto, oltre ogni remoto nodo che sa solo stringere e… stringere.
“Cose che sanno parlare / Cose che hanno colore / Cose lasciate cadere ma / Che non si frangono mai” (Fiore di neve). Sul rosso acceso e delicato girano le prime movenze del secondo album di Veronica: L’acqua del mare non si può bere (La Matricula, 2008). Fragile, forte, tenera, emozionata, fiera del suo lavoro. Comunica un’umiltà disarmante, un coraggio che accarezza la sfida di spingere fuori la sua intimità, fino alla dolcezza di un imbarazzato sorriso. Comunica la poesia della musica, quella che solo voce e chitarra sanno liberare senza inganni, senza ipocrite fughe d’apparenza. La sua bocca che modula respiro e parole, con sapienza e con ispirazione. Le sue mani che scivolano sulle corde, sfiorandole o pizzicandole. Sola, semplice, capace di vibrare e far vibrare. E’ stupore, inatteso. Stupore che richiama alla memoria l’esordio discografico del 2005 e scandisce un rapporto di assoluta maturità artistica, sia nelle tessiture testuali che nelle soluzioni sonore. Emerge la consapevolezza della fede ad un sogno, tutta dipinta nella schiettezza dei gesti.
Saldi di primavera, Normale, Ancora cinque minuti e qualche parola a spiegare ciò che delle canzoni forse non si può, perché sedimentano e cercano sensi che sbocciano solo a saperli sentire.
“Dillo piano se mi ami / I segreti non hanno suoni” (Dillo piano)… lei abbassa gli occhi e lascia scivolare i pensieri sulla fragilità di ciò che cerca il silenzio per non rompersi. Perché è la lentezza dell’aria che mettiamo nella voce a dare la verità dei sentimenti, fermandoli senza sciuparli.
“Ansia, ciò che si dice rimanga / Ansia ciò che si dice non vada perduto / che le parole che pronunciamo restino / per sempre” (Resisti)… e il ricordo di una vecchia foto con le radici nei legami. Quei legami che sanno scegliere il senso nell’attimo, prolungandolo.
Un giorno senza te e la timida mano a presentare una canzone dedicata all’amore. Veronica confessa di non scriverne di esplicite perché l’amore è in tutte le parole che usiamo quando diamo anche solo un angolo di cuore. Splendida coerenza è un saluto spinto con la voce che osa. Un saluto ancora, nel tuffo di un passato da non scordare (Bambina).
Confessa di aver molto da lavorare, ma ha una luce fortissima ad accompagnare i suoi sogni. Ha il talento e la forza dei cristalli. Sa dare e sa prendere, Veronica.
A volte basta lasciarsi andare, af-fidarsi per trovare i colori, i suoni. A volte basta fermarsi per provare a capire. (Foto by Marco Reali)
*Mi sembrava che l’anima viva dei colori emettesse un richiamo musicale: Vasilij Kandinskij – Lo spirituale nell’arte
“… A volte basta fermarsi per provare a capire…” parole enormi di semplicità – emozioni come pelle tesa perchè il sole ne usi i dettagli.
Ascolterò questa musica con le mani tese, in avanti, in silenzio…