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Parole sprecate: cinquant’anni di Beatles

Ho sentito dire che la Musica è una forma d’arte in divenire. Potrebbe darsi.
Se ci fermiamo davanti a un quadro di Van Gogh o al David di Michelangelo, osserviamo delle opere d’arte ferme nel tempo, statiche, immobili, se ascoltiamo invece un qualsiasi Concerto per pianoforte e orchestra di Rachmaninov, oppure la Sonata al chiaro di luna di Beethoven o anche Twist And Shout dei Beatles, ascoltiamo una creazione d’arte che nasce in un dato momento e, dopo un certo svolgimento – in cui si sviluppa nelle sue forme – finisce.
Insomma, per farla breve, se il David è lo stesso di cinquecento anni fa, un’esecuzione della Rapsodia in blu è diversa sia che voi l’ascoltiate al primo minuto o al minuto 1:59 (per non parlare poi delle differenze che possono esserci in base a chi esegue un brano).
Forse solo il Cinema è paragonabile alla Musica per questa caratteristica di iniziare, cambiare e finire in un dato tempo un’opera d’arte ma, a differenza del Cinema, la musica è una forma d’arte che dura, è vero, pochi minuti ma che poi riproduciamo col pensiero oppure con quel nostro fischiettio fastidioso o anche – oh, meraviglia! – con uno strumento musicale, se sappiamo suonare qualcosa di più complesso del citofono di casa.
Ed in più, la musica, ha un altro dono.
La musica, e ora mi attirerò addosso le ire dei più, ci accompagna nel nostro percorso di maturazione personale e collettivo molto più di una qualsiasi opera d’arte figurativa. La musica ha cavalcato insoddisfazioni personali e sociali più di quanto abbiano potuto fare, che so, gli Impressionisti, che pure di rottura con gli schemi ne sapevano qualcosina  e, se è anche vero che “a canzoni non si fan rivoluzioni”, come dice il caro Ciccio Guccini, è altresì vero che alcune canzoni sono state la colonna sonora di alcune rivoluzioni.
In effetti, a pensarci bene, avete mai visto un rivoluzionario manifestare nelle piazze con una copia a grandezza reale del David di Michelangelo sulle spalle? No, eh?
E invece, guarda caso, molti rivoluzionari cantavano la Marsigliese prima e L’Internazionale poi.
Insomma, caro Michelangelo, non dico che avresti fatto meglio a studiare musica ma, comunque sia…Musica, Maestro!
Musica, o meglio, canzoni.
Le canzoni accompagnano le nostre vite private, le nostre esperienze, i nostri dolori e le nostre gioie e accompagnano i momenti che la nostra società vive, le sue trasformazioni, i suoi drammi.
La Storia ha una colonna sonora che non deve essere per forza il rumore sordo delle esplosioni ma anche una musichetta da fischiettare.
E quali canzoni sono legate alle nostre trasformazioni culturali più di quelle dei Beatles?
Certo, il jazz. Certo, il blues. Certo, i cantautori francesi ma, diciamocelo, i quattro ragazzi di Liverpool hanno completato quello che Elvis aveva iniziato e al tempo stesso hanno battuto strade nuove per chi sarebbe venuto dopo. Cosa sarebbero stati senza i Beatles gli Oasis, o Belle And Sebastian, o gli Smiths o i Duran Duran o gli Arctic Monkeys, o Björk o i Metallica( cosa c’entrano i Metallica? Andate ad ascoltare una band che si chiama Beatallica e poi mi fate sapere)?
Scrivere dei Beatles è forse la cosa più difficile che mi sia capitata di fare da quando scrivo di musica per LH eppure è qualcosa che sentivo di dover fare. Li ho sempre nominati, li cito spesso, li suono con Carolina, la mia chitarra, e li ascolto a casa mia ma scriverne è un altro discorso.
Il timore è quasi reverenziale, sono i Padri e i Padri o si uccidono o si amano e io, non ditemi nulla, riesco meglio nella seconda cosa che nella prima. In più, ovviamente, non c’è nulla che non sia stato già detto sui Beatles.
Quindi, timore. Quindi imbarazzo.
Quindi i Fab Four.
Ma perché “favolosi”? Cos’avevano questi ragazzi da essere etichettati così?
Perché quest’anno si festeggia il loro cinquantenario, il loro catalogo viene rieditato, al cinema ricompare il Magical MYstery Tour, iniziative commemorative si susseguono in tutto il mondo, le radio si scervellano per inserire un loro brano in scaletta? Insomma, avevo promesso di non fare questa domanda ma devo rimangiarmi la promessa: chi erano mai questi Beatles?
Ci sono carrettate di sociologi e storici nelle università di mezzo mondo che ancora cercano una risposta dopo cinquant’anni, figuriamoci se posso darvela io su LostHighways nel tempo di una veloce lettura.
Ci provo? E vai allora…
Dunque, furono sicuramente gli ultimi figli degli anni ’50, cresciuti con il blues e il rock’n’roll dei pionieri, e furono i primi figli dei ’60,  nacquero in un mondo, morirono in un altro, furono coloro che da quello che c’era tirarono fuori parte di qualcos’altro. Quel qualcos’altro che sarà chiamato pop art.
I Beatles sono parte di un puzzle, quello della pop art appunto, e ne sono forse il pezzo più grande, in ambito musicale se dici Pop dici automaticamente Beatles.
Crearono uno stile, divennero e crearono prodotti.
I Beatles, insomma.
Le facce di Paul, Ringo John e George sono famose al pari di quelle del Che, di Marx, di Hitler e, perché no, anche di Gesù Cristo, di quel Cristo per cui dovettero chiedere scusa pubblicamente, a causa di quella famosa battuta sulla fama.
Ed è emblematico notare come una semplice frase pronunciata da un cantante di un gruppo musicale abbia scatenato le ire dei benpensanti e di fondamentalisti cattolici. Le voci dei Beatles iniziavano a dare fastidio perché qualcuno pensava avessero più presa sulla gente di quelle dei preti dal pulpito.
A giudicare da come è andata, quel qualcuno non pensava male (segno che anche gli stupidi a volte ci imbroccano).
I Beatles, dunque.
Un nome immenso, quattro ragazzi che cantavano di trichechi, di campi di fragole, di madre natura e di madre Maria, di boschi in Norvegia, di bungalow e di sottomarini gialli, di finestre nel bagno, di ritorni in Unione Sovietica, di anime di gomma, di club per cuori solitari, di una certa Lucy che sfoggiava diamanti nel cielo, di una certa Eleanore e di tale padre McKenzie, e vogliamo continuare?
Del Doctor  Robert, di un domani che nessuno conosce, di jai gurudev ommmm, di qui, lì e ovunque, di un martello d’argento, di sobborghi dorati, di uno strano giardino e di una piovra…ancora? Penso possa bastare.
Quattro ragazzi la cui musica si diffuse dall’isola di Albione fino a toccare i quattro angoli del mondo diventando riconoscibilissima sin dalle prime note, dalle prime onomatopeiche cantate da uno sfigato qualsiasi in metropolitana o scritte su LH da un tipo ancora più sfigato!
Quattro ragazzi che venivano citati anche dove, in teoria (ma solo in teoria), non erano di casa, basti pensare al documentario Woodstock – Tre Giorni Di Pace Amore E Musica – dove si vede un tecnico del suono che, durante un soundcheck, ripete al microfono: “Number Nine, number nine, number nine!”, oppure, per non andare troppo lontano, ricordarsi di un meraviglioso Massimo Troisi intonare: “Yesterday-bon-bon”.
Quante sono le facce dei Beatles? Che forma ha la loro Forma e di che sostanza è fatta la loro Sostanza?
I Beatles musicisti, ché ad ascoltare il White Album oggi sembra scritto ieri, anzi domani, per quanto è avanti.
I Beatles fenomeni di costume, ché i capelli a caschetto non si portavano dai tempi in cui bruciarono Giordano Bruno e no, Nino D’Angelo non era un loro fan ma forse il suo barbiere sì.
I Beatles ragazzacci, ché non s’è mai capito se quella canna nei cessi di Buckingham Palace se la sono poi fumata, non se la sono mai fumata o magari l’hanno venduta. Magari alla Regina (e, detto tra noi,  da qui si spiegherebbero anche i cappellini rosa!).
I Beatles figli dei fiori, ché l’India non è Haight Ashbury ma almeno lì non si vive nel mito dei Grateful Dead.
Quante cose si potrebbero scrivere sui Beatles, sulla loro musica e sull’importanza fondamentale che hanno avuto nella costruzione dell’identità occidentale moderna?
Non sembra possibile siano passati cinquant’anni da quando un ragazzino brufoloso disse ad un altrettanto brufoloso John Lennon: “Hey Johnny, ti presento il mio compagno di classe McCartney Paul.”.
E poi arrivarono George e Ringo ma prima ci furono Pete Best e il povero Stuart Sutcliffe.
Quante persone sono passate nell’orbita dei Beatles, a volta oscurati come satelliti dalla loro luce, altre volte in viaggio con loro, a  volte semplici passeggeri, altre volte parti integranti del loro successo, trasformatisi con loro e da loro trasformati?
I già citati Best e Sutcliffe, poi Brian Epstein che per molti fu il Quinto Beatles, George Martin, che in loro vide il futuro e non commise l’errore di quel dirigente della Decca che, giudicandoli senza talento, rifiutò loro un contratto (che svista colossale, poveraccio. Chissà dov’è adesso e se ha smesso di mangiarsi le mani), poi Bob Dylan, poi Maharishi Mahesh (che si dice avesse un debole, oltre che per la Grande Dea, anche per le dee minorenni e succinte), poi Ravi Shankar, poi Frank Sinatra, poi Phil Spector (il cui cervello non ha mai funzionato tanto bene e s’è visto che fine ha fatto), poi Yoko Ono (che qualcuno ancora maledice), addirittura Gianni Morandi che li conobbe a Roma durante la loro tournée italiana ( il nostro signor Fatti Mandare Dalla Mamma conobbe anche i Led Zeppelin… poi dicono che il culo lo si ha una volta sola nella vita!).
Quanta gente, quanta arte, quanta Storia c’è in cinquant’anni di Beatles?
Dovrei parlare adesso delle trasformazioni che sono avvenute in mezzo secolo mentre i quattro ragazzi di Liverpool ne scrivevano la colonna sonora? Vediamo…
Mio nonno non aveva nemmeno il telefono in casa, io ne ho tre tutti nella tasca destra del mio jeans e non mi danno nemmeno fastidio per quanto sono piccoli. Se sposavi qualcuno che non amavi ti attaccavi al tram per tutta la vita, adesso puoi tranquillamente decidere di farti spellare dagli alimenti. Una volta se volevi andare da Napoli a Milano ci mettevi una giornata, adesso prendi un aereo e arrivi prima di partire (ah, mania delle citazioni!). Poi cos’altro è accaduto? Vediamo…
Il Vietnam iniziò, riscosse il suo macabro tributo e finì così, come se niente fosse successo. Kennedy conobbe Marilyn, poi andò in auto a Dallas e qualcuno pensò di far prendere aria al suo cervello, qualche tempo dopo anche il suo fratellino ricevette una visita poco gradita e infine Marilyn, che li conobbe entrambi, pensò di andare a vedere come se la passavano.  M.L.King, disse che aveva un sogno e qualcuno pensò di metterlo a sognare per sempre; l’Uomo andò sulla luna, non trovò bar aperti e tornò a casa; qualche papa morì di vecchiaia, qualcun altro di veleno, qualcun altro non è morto ancora che tanto morto un papa se ne fa un altro! E intanto i Beatles suonavano.
Troppe, troppe cose, come faccio a dire perché si festeggiano i cinquanta anni di Beatles?
Rileggo ora tutto ciò che ho scritto, capisco che non si può parlare dei Fab Four senza parlare di noi, del mondo che c’era, dei nostri padri, della nostra Storia ma questo è un sito in cui si parla di musica, non la pagina culturale de La Repubblica, e quindi? Come me ne esco?
Ho fatto quella domanda e, da quando ho iniziato a scrivere, sono arrivato ad una sola conclusione.
Se chiedi chi erano i Beatles non te la cavi con un “ma chi erano mai questi Beatles?”, devi avere come minimo un paio di mesi liberi per ascoltare la risposta.
Forse dopo, quando la risposta sarà arrivata, capirai non solo chi erano John, Paul, Ringo e George ma anche chi eravamo noi.
O forse non capirai niente ed io sto solo vaneggiando, come al solito.
Per parlare dei Beatles sto sprecando parole e allora fate finta che non abbia scritto niente, il mio pensiero sui Beatles e sul loro cinquantenario comincia adesso.
Eccola:
I Beatles erano… anzi no, I Beatles sono i Beatles.
Cos’altro c’è da dire?

E voglio chiudere con l’ultima frase di una delle loro più belle canzoni:
“alla fine l’amore che ricevi è uguale a quello che dai”.
Questa è forse la ragione per cui si festeggia il cinquantennio.

Twist and Shout – Video

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