L’equilibrio dei contrari questa sera s’arrende all’eloquenza delle mani, del vento, di una falce di luna; si perde sulla corda tesa della bellezza, sulla fune mendace dei mutamenti, tutti, delle stagioni e del caso, dei pesi e delle loro misure. Le parole danzano, una ad una, in punta di piedi, fasciate dall’abito elegante di una femminilità guerriera, di una musicalità protettrice. Inizia così, chitarra e voce, questo piccolo viaggio dei pulviscoli e delle concessioni, di un ventre che sente, delle vertigini d’immensità. L’aridità dell’aria, Mangialuomo, Universo sfilano dai cardini i battenti delle favole e lasciano che la luce riveli, afferri e fermi le distanze.
La meta è una verità da raccontare intatta alla quinta stagione dei sensi, perché s’ubriachino dell’odore dell’aria, del sapore dei desideri. La meta è un miraggio in carne ed ossa, d’intese e arrese, d’impeto e delicatezza. Le solite cose batte forte contro la finestra di questa sera ed è subito marea d’elettricità che seduce le tensioni, le imita d’istinto. Cristina Donà è la pelle tesa di un corpo di note che ha il costato solido di musicisti eccezionali, generosi, attenti alle sfumature, agli equilibri, alle simmetrie; è il cuore pulsante di uno spettacolo che non disegna ombre ma scolpisce piacere. Si prende in giro, gioca con se stessa e con chi la ascolta, quasi quella classe particolare, quel particolare afflato sensuale debba essere protetto, custodito solo dall’aura della voce, degli impeti sonici. Con la chitarra fra le mani o con le mani libere a prolungare la magia dell’ugola, trasforma la malinconia in grinta, la grinta in rime, le rime nel silenzio rumoroso di sguardi ritmici, d’intese accolte e restituite. Le solite cose, The Truman show, Ogni sera, L’ultima giornata di sole. Vuole un altro sogno, dice di sé e un po’ di ognuno, sfida la pioggia, i colori, la mappatura del volo. Stelle buone, dedicata al suo compagno di viaggio, a Davide, suo marito, è una corolla che si schiude e permette al sale di rarefarsi in cristalli complici d’amore, dell’amore quando riesce a tradursi in gesti, in una promessa; l’amore quando non vuole essere un dettaglio, ma leggerezza e consapevolezza, sfida e memoria, una guerra senza vinti, senza vincitori (Migrazioni, I duellanti). Al suo pubblico regala allegria e acume, distrazione e movimento, sui passi di valzer di Non sempre rispondo, sulle note stridenti di Terapie. Al suo pubblico porge il complimento migliore: Goccia e la sua unicità, il suo essere canzone dei sempre e di tutti i mai. A qualcuno in particolare, presente nel battito, in palmo di mano, dedica, inconsapevole, L’eclisse, bacio sulla fronte che spiazza per l’umanità della percezione di tutti i rumori che si nascondono nel buio. I suoi pezzi li offre, uno ad uno, regali curati ad arte dagli scrigni di ciascuno dei suoi album: Invisibile e l’insinuarsi dell’impalpabile, il flamenco sui generis di Sign your name across my heart (cover di Sananda Maitreya, già conosciuto come T. T. D’Arby, con Francesco Garolfi alla chitarra), la metafora complice di Nel mio giardino, la corsa scalza di Triathlon, la mano di dadi di Ho sempre me. Cristina Donà non si stanca. Non si stancano i suoi musicisti. You really got me (The Kinks) è il medley dei loro slanci, delle euforie di ognuno, della spensieratezza che può schiacciare il peso del dolore, schiacciare le assenze, urlare bisogno, vita. Lo spettacolo potrebbe continuare, potrebbe sedare il tempo ancora per un po’, prendersi ancora un po’ del nostro bisogno d’angoli in cui nascondere la fronte al giorno, alla paura che appesantisce la mente. E lo spettacolo continua, perché l’energia non si disperde, l’energia si trasforma, indovina gli alibi e li smaschera, fino al nocciolo della questione, fino alla polpa delle notti, dei ritorni a casa, delle partenze, degli esempi fatti a caso, di ogni più piccolo, fragile segreto. (Foto by Roberta Molteni)