Nicola Pecci, cantautore di razza, ha pubblicato nel settembre di quest’anno l’album Il solo modo per essere felice, un concept sulla sindrome di Peter Pan che diventa filo conduttore per la riflessione sull’esistenza e sulll’individuo, sulla solitudine e sull’unicità dell’io di fronte al mondo, sull’inutilità, sulla precarietà, sul fallimento, sull’assurdità del vivere, sulla percezione di essere imperfetti e non ancora, probabilmente mai, capaci di portarci a termine. Ne abbiamo parlato con lui. (La noia è in streaming autorizzato)
Come e da quale urgenza è nato Il solo modo per essere felice?
Il solo modo per essere felice è nato dal bisogno di “asciugare” la mia musica. Dalla decisa sensazione che tutto quello che si ascolta si assomigli e suoni allo stesso modo. Un’omologazione generazionale, se così si può dire, anche nei generi diversi, di sonorità. Sarà che ormai, lavorando digitalmente, i programmi usati sono gli stessi e, per quanto ci si sforzi, si finisce per ricordare sempre qualcos’altro. Allora, intanto ho tolto completamente le chitarre, strumento peraltro da me molto amato, ed abbiamo usato il pianoforte come base dalla quale partire. Non ho avuto paura, e più il lavoro andava avanti più ne ero convinto, anche se il rischio grande c’era: quello di scrivere un’unica, interminabile canzone. Ma forse era proprio questo quello che volevo. Per quanto riguarda il come, c’era uno spettacolo che volevo fare su un uomo che crede di essere un ragazzo e che non riesce patologicamente ad uscire di casa perché non è capace di confrontarsi con gli altri, e che si esprime solo con i libri e con le canzoni. Il disco ne è diventato la colonna sonora.
Ascoltando mi sono ritrovata dentro molte delle sensazioni e delle situazioni descritte nelle dieci tracce e le ho percepite come proprie della generazione dei trentenni/quarantenni di oggi eternamente annoiati nonostante le migliaia di alternative che gli si presentano davanti, ma che sembrano sempre uguali. Partendo proprio dalla Noia e dal libro di cui parli nel testo, cos’è la noia, di chi è il libro che sfogli e cosa hanno dato a Pecci quelle pagine?
Devo ammettere che non mi ero mai annoiato, e lo dicevo a tutti, quasi fosse un vanto. Poi, in un’estate dei primi anni del duemila, ho cominciato a farlo. Ma non capivo cosa fosse veramente questa Noia. Avevo voglia di scrittori esistenzialisti, presi un libro di Moravia, La noia, appunto, e tutto mi si rivelò nell’incipit o poco dopo. Il distacco totale dalle cose, ecco cos’era la noia: stringere in mano un bicchiere e non sapere cosa sia. Moravia mi ha aperto un mondo, a trentacinque anni. E quelle pagine mi hanno dato un’appartenenza, così come gli altri libri di Moravia che ho letto dopo, la sensazione di riconoscersi là dentro. Una volta lessi un’intervista del regista Salvatores che, parlando del suo rapporto di lavoro con De Gregori per il film Turné, affermò: “Pensando a tutta la produzione di Francesco ho sempre avuto la sensazione, pur facendo mestieri differenti, di star andando nella stessa identica direzione”.
Il solo modo per essere felici è fare sempre quello che si vuole, canti. Una presa di coscienza ineluttabile. Lo canti come se la constatazione di questo, che pare essere così scontato, fosse stupore per una verità presa sempre sotto gamba…
Io vivo sempre preso dallo stupore. Non riesco ad abituarmi alle cose, agli avvenimenti, ai sentimenti. È come se ogni giorno tutto si azzerasse, e dovessi ricominciare da capo ad imparare. E non è umiltà questa, ma un dato di fatto. Poi, a pensarci bene, non credo di essere umile. Fu un signore alcolizzato che incontrai a Londra a pronunciare quella frase. E sono certo che non lo dimenticherò mai, perché mi specchiai in lui, mi ci rividi nella peggiore delle ipotesi. Continuavo a domandarmi: Si potrà riuscire ad essere coerenti fino a morirne? Andare avanti, convinti che alla fine si avrà ragione e non torto? Io forse vivrò in aria, sarò aereo e inconsistente, ma non ho mai sopportato sentirmi dire che sono inconcludente solo perché non riesco a tradurre in soldi quello che faccio dalla mattina alla sera, è una cosa che mi fa incazzare. Io non mi so vendere, ed è giusto così. Il punto è che io non mi devo vendere, casomai devo essere venduto.
In un bagno qualunque inizia con un dichiarato omaggio a Tenco. A lui hai dedicato anche il tuo spettacolo teatrale L’ultimo giorno, quanto ha influito l’ombra di Tenco su Il solo modo per essere felice?
Molto, direi. Lo spettacolo che ho scritto su di lui mi ha fatto veramente svoltare, capire e prendere decisioni. È la storia del suo ultimo giorno di vita rivissuta in uno strano luogo-non luogo subito dopo il suo decesso. E questa misteriosa e bellissima donna che lo vuol continuamente sedurre fino a farsi violentare non è altro che la Morte. Devo tanto a quello spettacolo, è il mio picco. Ho ripulito le cantine e sono ripartito dai fondamentali. E sono cambiato. Nessuno se n’è accorto, ma sono cambiato completamente. In quella canzone si parla di errori che è giusto aver commesso, si parla di me.
Hai dichiarato che Ho chiamato mia madre è una canzone bugiarda (nel senso che quella telefonata non è mai avvenuta), ma che dentro c’è molta più verità che nelle altre canzoni. Qual è questa verità?
Ho quest’immagine di me che spesso mi si presenta davanti. Io che ho mollato, ho chiuso con tutto e con tutti, e non faccio altro che camminare ed osservare ciò che accade, le facce della gente, le voci che si sovrappongono, senza poter più parlare, una specie di telecamera umana. E la sensazione di quella condizione mi piace. Non posso essere un maledetto, per natura. Ci ho provato, ma non fa per me. O forse lo sono ma in un modo tutto mio. Ho un punto di vista sempre surreale degli avvenimenti, vivo apparentemente in maniera piuttosto consueta ma in realtà percepisco tutto distorto. E quella telefonata immaginaria è fatta dal quel Me maledetto e distorto che non accetta la realtà, ma che non fa niente per cambiarla, una concezione piuttosto kerouachiana, beat = beati e battuti. Quel Me non chiede aiuto, chiede soltanto di essere capito.
La fine di un anno terribile apre alla speranza. Come se la noia, le parole e la musica fossero una cura al male di vivere che ci attanaglia in questo tempo fatto di strani giorni. È così?
Sì, è così e non potrebbe essere diversamente. L’arte, contrariamente a quello che dicono in molti, è una delle poche speranze di salvezza. Ho un amico attore che dice molto seriamente che recita altrimenti impazzirebbe, e io gli credo. E poi c’è una bravissima attrice, sempre mia amica, che continua da anni a lottare per proteggere la sua purezza di intenti, e quando sono in difficoltà penso a lei. E io credo di essere come loro, credo che si debba resistere, anche se non è facile per niente, si debba provare a tendere verso la Bellezza sempre, in ogni forma. La speranza che c’è in quella canzone è un risveglio, “silenziosamente ti riprendi le tue mani”, ritrovi la forza che avevi e che non era perduta, e fai. È un’esortazione diretta soprattutto a me stesso e alla mia cavolo di pigrizia, perché spesso tendo a non agire, ho bisogno di stimoli continui.
Scompartimenti innamorati, la mia preferita del tuo album, è un surreale viaggio in cui le parole corrono come treni, si incastrano, si scontrano, a cercare cosa davvero conta. Cosa conta davvero per Nicola?
Qui vuoi fregarmi. La ghost track che segue Scompartimenti innamorati, e che s’intitola B., lo dice chiaramente: niente conta veramente. Ma c’è un Ma. Contano le cose essenziali, nella loro forma base e quelle contano tutte, moltissimo. Ho sempre provato un piacere enorme nel godere dei desideri primari dell’essere umano, quelli per la sopravvivenza. Il problema sono tutte quelle costruzioni che l’uomo fa, ciò che aggiunge. È come se si pensasse che nella quantità ci fosse per forza la qualità. Tutto il superfluo va solo ad appesantire l’essenziale, e nella maggior parte dei casi lo rende privo di gusto. Sono una persona che sfiora il maniacale nella ricerca di asciuttezza. Di pensiero, di opinioni, di desideri. Ho sempre ammirato le donne che non cambiano mai il colore dei loro capelli. Ma mi rendo conto che questa risposta è molto personale e non chiede di essere del tutto compresa.
C’è un tour in programma di cui puoi darci le prossime date?
Guarda, al momento, l’unico obiettivo è quello di far conoscere il disco sotto forma di recensioni, interviste, critiche musicali, quindi di far arrivare il disco agli addetti ai lavori, e che venga ben accolto e recensito, per poter arrivare poi in maniera più chiara al pubblico. C’è molta offerta, troppa, capisco che l’ascoltatore faccia fatica a capire chi ha veramente qualcosa da dire. Quindi l’obiettivo è quello di distinguersi e di uscire da questo marasma un po’ tutto uguale. Poi, spero, dalla primavera in poi di poter anche portare il disco dal vivo.
“Mi piace far fatica per raggiungere la bellezza”, hai scritto sulla tua pagina Facebook ed io, nel ringraziarti per questa intervista, ti auguro di continuare a faticare visto il buon lavoro de Il solo modo per essere felice. Grazie.
Grazie a te.