Il mare può essere fonte di inganni, se osservato da lontano. L’immersione è un’altra questione, vuol dire esplorare la verità, misurarla, comprenderla, magari combatterla, scegliendo di farlo. Il mare diventa una metafora per il pugliese girovago Fabio De Matteis, per il suo modo di guardare il mondo e starci dentro, dentro le storie, gli incroci con gli altri. Io non mi fido di questo mare è il titolo del suo disco d’esordio, anticipato dal singolo Anche Se Non Ci Fosse Più Niente Da Fare. Un disco fatto di voce nuda in primo piano che cerca come compagna fedele la chitarra. Il resto lo fanno gli arrangiamenti morbidi e delicati. Un lavoro che gode della collaborazione, tra gli altri, di Massimiliano Lotti e Giuliano Dottori e di quella di Dino Morabito nel ruolo di produttore artistico.
C’è modo e modo per essere cantautori. Ci sono tratti e tratti con cui delineare il proprio profilo, De Matteis si definisce cantautore esistenzialista. Questo vuol dire che il suo non è uno sguardo che racconta solo lo scorrere dell’accadere, è uno sguardo che scruta l’accadere attraversargli l’anima decodificandolo attraverso il proprio vissuto, i propri sentimenti. Una visione singolare, personale che spinge il genere del cantautorato verso quella libertà che nega i cliché, quelli in cui anche la musica indie è, purtroppo, caduta. Di tutto questo e altro ci ha raccontato Fabio per presentarci Io non mi fido di questo mare. (Foto di Danilo Giungato).
Il tuo disco d’esordio si presenta con un titolo che non è affatto immediato. Chiama in causa il mare, il gioco di instabilità di cui è capace, facendosi impalcatura di una suggestiva metafora. Me ne parli?
Ho pensato al mare come alla metafora del mondo. Un mondo interiore e un mondo sociale. Mi sono chiesto come sto al mondo? Cosa sono disposto a rischiare per essere davvero felice? La risposta, negli anni, l’ho trovata “stando” nelle cose. Stare nelle cose per me vuol dire toccare con mano, attraversare tutto ciò che arriva. A volte arrivano cose belle, altre volte arriva merda. Purtroppo, al mondo d’oggi ci siamo disabituati a stare nelle cose meno belle e cerchiamo di colorare anche il nero. Ma se proviamo a colorare il nero ci accorgiamo che siamo impotenti e nell’impotenza non si può che stare. I media ci raccontano di una realtà non riscontrabile nella realtà. Così è il mare quando ci limitiamo a guardarlo da lontano, quando ci limitiamo a guardarlo in superficie. La superficie è sempre cristallina. Poi capita che mi ci immergo e inizio a vedere quintali di rifiuti tossici, una barriera corallina distrutta dalle bombe, ecco inizio a toccare con mano la parte buia della luna, conseguenza di molte azioni umane. Io non mi fido di questo mare, ed è per questo che mi ci immergo, perché voglio vedere. Così alla fine tutti ci troviamo di fronte ad una scelta, continuare a raccontarci che tutto va bene e illuderci di essere felici, oppure guardare in faccia la realtà delle cose, affrontarle e rischiare di esserlo davvero.
Dal titolo ai testi. All’importanza delle parole. Quelle che fanno la differenza nel ritratto di un cantautore. Come sono le tue parole? Da dove arrivano e come le scegli?
Io scrivo in italiano e la lingua italiana mi dà la possibilità di giocare con parole semplici che, incastrate in un certo modo, regalano infinito senso a ciò che voglio esprimere. E il senso è del tutto soggettivo. Voglio dire, un tramonto è un tramonto per tutti, ma quello che suscita è diverso in tutti coloro che lo guardano. Mi descrivo come un “cantautore” (se pur limitante come parola) esistenzialista. Il più delle volte, i miei testi non raccontano storie, ma descrivono modi di stare al mondo, sensazioni, relazioni, stati d’animo, appunto esistenze. Parole semplici dal sapore enigmatico. È come dire scrivo “uno” per raccontare “cento”. Da dove arrivano le mie parole? Dalle favole che mi raccontava mia nonna, dai viaggi regalati da mio padre, e dalla cura con la quale mia madre mi prepara da mangiare.
Quale canzone potrebbe fare da chiave all’intero mondo del disco?
Mi chiedo innanzitutto se c’è una canzone che potrebbe fare da chiave. La risposta non la trovo in una canzone ma nell’atmosfera, nelle sensazioni che mi arrivano quando ascolto il disco. Io non mi fido di questo mare rappresenta l’analisi personale fusa con l’analisi sociale, in una cornice che regala sensazioni fresche, attuali e retrò allo stesso tempo. Se proprio dovessi sceglierne una, allora direi Non siamo mica Adamo ed Eva, quando dico “solo tu conosci il senso della tua esistenza, solo io conosco il senso della mia esistenza”.
Anche Se Non Ci Fosse Più Niente Da Fare è il primo singolo. Un invito a non piegarsi, a resistere, scegliendo di farlo. Questo è crescere?
È l’invito ad andare avanti nonostante tutto. È il desiderio di andare avanti nonostante tutto. Desiderare non è Dovere. Nel desiderio c’è impegno e non sacrificio. Scegliere vuol dire desiderare. La scelta e il desiderio arrivano da dentro, mentre il sacrificio e il dovere ci vengono imposti dall’esterno.
“Senza l’inganno di sentirmi piccolo” e “Senza il dovere di inchinarmi al più forte”. Sapendo di non esserlo, potendo scegliere di non farlo. E allora mi accorgo di essere cresciuto ma da qualche parte, a volte, mi sento ancora bambino. E mi sento bambino quando non voglio assumermi la responsabilità di ciò che mi trovo a vivere quotidianamente. E mi rendo conto che la realtà che vedo è un inganno. Crescere vuol dire avere consapevolezza di ciò che voglio per me e per le persone a cui voglio bene. Soprattutto, fare le cose che mi lasciano un sapore piacevole.
Sveliamo le quinte di questo disco d’esordio. Raccontami i suoi luoghi, i nomi che ha raccolto, le mani che lo hanno lavorato…
Ho iniziato a fare musica a sette anni. A quindici anni ho iniziato a scrivere canzoni. A trenta ho racchiuso in un album dieci anni di vita, ho messo un punto a dieci anni di vita. Da sempre sono un nomade. Sono pugliese, ho vissuto nove anni a Firenze cambiando nove case, passando per tre amori, dalla campagna toscana al freddo d’Abruzzo, approdando nel tepore romano. Negli anni dell’università ho girato molte città italiane trovando sempre amici disposti ad ospitarmi. Credo nella qualità delle relazioni, e non mi fido della quantità. Per ogni passo fatto ho lasciato qualcosa di me e ho preso qualcosa dall’altro. E le canzoni, scritte in stazione oppure nella hall di un albergo lussuoso. Scritte sulla sponde di un lago o nei mercati del Benin. E poi arriva il desiderio di inciderle per farle diventare eterne.
La produzione artistica l’ho realizzata con Dino Morabito. Abbiamo registrato e missato al JaCuzi studio di Milano, con Massimiliano Lotti. Infine è stato masterizzato da Giovanni “Meniak” Nebbia presso Ithil World Studio, Imperia. Alla steel, in Io non mi fido di questo mare, Non sei un’ombra e Amami ho avuto il piacere di collaborare con Glauco Salvo (chitarrista di Amycanbe, Marco Parente, Andrea Cola, etc.).
Singolare l’incontro e la collaborazione con Giuliano Dottori. Entra in studio, gli faccio ascoltare un brano, NaYesu, e gli dico che qualcosa non mi convince. Mi guarda, e mi dice: “Posso provare a fare qualcosa?” . Dopo cinque ore di lavoro abbiamo stravolto la canzone, messo le basi per un’amicizia e mangiato una pizza deliziosa. Le canzoni sono state suonate da (chi più, chi meno): me, Salvatore Sese, Dino Morabito, Massimiliano Lotti, Giuliano Dottori, Marco Parano, Giovanni Cresseri, Glauco Salvo, Marco Mojana. E arriviamo alla copertina. L’immagine ritrae la mia faccia in una nuvola di schiuma, giusto per prendere un po’ a schiaffi il mio narcisismo. Le foto sono state scattate da un amico, fotografo che stimo, Danilo Giungato, e la grafica è stata curata da un altro amico, Matteo Mastragostino. Ad occuparsi dell’ufficio stampa “ArteVox Musica”. Ad accompagnarmi nella buona e cattiva sorte, la mia famiglia, la mia compagna Lucrezia e gli amici di sempre.
Parlami delle tue influenze musicali e del modo in cui ritieni di farle tue, miscelandole in quello che chiamano stile. Quanto è difficile farlo emergere oggi, evitando i rischi dell’appiattimento che certa produzione confezionata ad hoc sembra imporre definendo il gusto comune?
La musica classica è stato il mio primo approccio con la musica. Come dire, il primo amore non si scorda mai. Ricordo con commozione i pomeriggi passati a suonare Chopin, Schubert e Mozart. Con loro ho accarezzato le corde più profonde dell’anima. Con loro ho iniziato ad amare le melodie e a capire che non può esserci follia se non si conoscono le regole della metrica. Crescendo, mi sono affezionato ai cantautori. Da De André a Cohen, da De Gregori a Dylan, passando dalla psichedelia dei Pink Floyd alla freschezza dei Beatles. E poi Van Morrison, Bob Marley, Jeff Buckley, Radiohead, arrivando ai cantautori contemporanei, Moltheni, Paolo Benvegnù, Manuel Agnelli, Cristina Donà. Vivo molto di sensazioni e mi fido di ciò che sento. Quando ascolto una canzone la temperatura del termometro è data dalla presenza o meno di un brivido dietro l’orecchio sinistro. A me succede questo. Ho sempre scritto per dare voce ai miei stati emotivi, per sentirmi meno solo, con la presunzione che se una canzone mi piace, probabilmente piacerà a qualcun altro, essendo io un essere umano unico e uguale a tanti altri. Quando un artista crea per se stesso, si preoccupa poco dello stile, poiché questo non è altro che il risultato di carne mangiata, masticata, assaporata e digerita. Carne scelta. Come tutte le esperienze di vita “condizionano” inevitabilmente la mia vita, così tutte le esperienze musicali si sciolgono inevitabilmente in un misto di canzoni. Per rispondere alla seconda parte della domanda ti racconto un aneddoto che ne racchiude molti altri uguali. Da settembre ad oggi, ho fatto ascoltare il mio album a circa cento addetti ai lavori, tra booking ed etichette della scena indie. I feedback recitano più o meno così: “Belle canzoni, bei testi, bellissima voce, suoni curati, purtroppo però il tuo stile non rientra nei nostri canoni di cantautore”. E questo mi fa incazzare, poiché la scena del cantautorato indie nata come costola folle, libera da etichette, sta diventando una “riproduzione casuale” di artisti, dove o scrivi e canti canzoni sulla scia di chi è già arrivato o non vai bene. O hai quel suono o non vai bene. Sta diventando un sistema chiuso alimentato sempre e solo dalle stesse persone. Bisognerebbe invece rischiare di più. O probabilmente sono incazzato perché ancora non mi cagano.
Con la mia domanda volevo proprio arrivare a questo genere di considerazioni.
La scelta del pubblico è così irrimediabilmente condizionata? I modelli sono così fortemente costruiti? Come si sente un cantautore come te rispetto alla musica dominante, a quella che ha mercato?
Mi faccio una domanda: è il pubblico che chiede un certo tipo di musica o è il certo tipo di musica che si impone al pubblico? Sto suonando tanto in giro per l’Italia, le canzoni piacciono, il mio modo di fare musica piace, sto vendendo i miei album, ma non ho trovato ancora un’etichetta disposta a credere in me. Allora, come la mettiamo? Mi sento come un funambolo. Cammino dritto sul mio filo, sorrido, piango e raggiungo la meta. Se do troppa importanza a quello che c’è intorno, rischio di cadere nel vuoto e di farmi male.
Hai seguito Sanremo 2013? Come ne esce la musica italiana? Certa musica italiana…
Da sempre seguo Sanremo. Anche quest’anno non mi sono perso una serata. Vedo che qualcosa sta cambiando. Ma per cambiare veramente occorre che piccoli cambiamenti continuino nel tempo. Non mi sono mai posto il problema “andare o non andare a Sanremo”. Se mi ci vogliono, ci vado eccome e al tempo stesso porto un brano che piace a me. Oggi vedo questa possibilità. Sanremo deve essere il festival della canzone italiana, quindi, di tutta la canzone italiana, dalla più popolare a quella più di nicchia. Partendo dal presupposto che per me esistono le belle canzoni e le canzoni meno belle, il problema non si pone. Poi ovviamente a vincere potranno esserci i più melodici e orecchiabili, i personaggi che arrivano dai talent show, ma questo è normale, poiché essendo il festival italiano è giusto che a votare siano le persone da casa. E chi partecipa al televoto? Soprattutto ragazzi e ragazze che da tempo seguono i loro idoli in TV. Non riesco ad immaginare un Dario Fo con il cellulare in mano che invia l’SMS per il voto. Quest’anno ci sono stati i Marta sui Tubi, gli Almamegretta, artisti noti da anni al pubblico out-sider. Ma ancora una volta: chi decide qual è la linea di confine? Chi detiene il potere. Fortunatamente, oggi esiste il web, esiste musicraiser, esiste la produzione dal basso, il fare musica dal basso. In questo modo il potere si ridistribuisce e anche chi non entra nelle grazie del “qualcuno di turno” può continuare ad esprimersi.
Ti lascio chiedendoti cosa auguri a questo disco…
Io non mi fido di questo mare, ti auguro di arrivare ad orecchie attente e curiose. Ti auguro di avere presto un fratello in modo tale da salvaguardare la specie. E per me, spero di continuare ad inebriarmi degli incontri, facendo del pregiudizio elemento di crescita e non di muro. Grazie.
Grazie a te!