Uscito a giugno, Sotto gli occhi del mondo è il primo disco di Federico Zecchin. Cantautore dalle più svariate influenze, Federico riesce ad unire l’attitudine pop a melodie jazz, permettendo anche ai più profani del genere di ascoltare e apprezzare. Il tutto è poi arricchito dalla materia concreta da cui traggono ispirazione la maggior parte dei brani: la cronaca di tutti i giorni, la storia che ogni uomo genera e affronta. Da una parte la razionalità della mente pensante, dall’altra l’improvvisazione del jazz: lo scopo è quello di informare e diffondere. Di offrire spunti per la riflessione, come confesserà lo stesso Federico a LostHighways. È forse il giorno più caldo di quest’estate, ma la curiosità e il desiderio di raccontarsi vince su tutto: e da un’intervista nasce un intenso dialogo alla pari.
Come nasce il tuo rapporto con la musica e in particolare con la musica jazz?
Io sono partito tanti anni fa facendo un po’ il mecenate, nel senso che avevo degli amici jazzisti e ho iniziato a fare delle pubblicazioni musicali jazz. Così ho prodotto il disco di Michele Calgaro, di Enrico Rava, di Claudio Fasoli, di Sandro Gibellini. Ho poi prodotto un disco di Paolo Fresu. La passione era quindi per il jazz suonato, avendo tanti amici musicisti. Poi ho prodotto anche dei libri per edizioni Ninfee. Erano libri curati esteticamente, alla Franco Maria Ricci per dire. E quindi quello è stato un po’ il mio inizio nell’arte. Finchè non ho fatto Nel Magico Mondo, un libro di poesie recitate da Giorgio Albertazzi e accompagnato da un cd. Poi questo progetto è sfociato in un concerto dal vivo e un tour teatrale con Rossana Casale e Giorgio Albertazzi. Il progetto cita fonti come Dante, Borges, tutti rivisti in chiave alchemica. La cosa interessante era confrontarsi con Rossana Casale, una grande professionista. Questo è stato l’excursus dal passato. Poi ho iniziato a suonare e ad esibirmi. Tra le esperienze importanti, ad esempio, ci sono state le tre date di apertura al tour italiano dei Simple Minds a Catania, Catanzaro e Roma. In quelle occasioni abbiamo fatto cinque, sei pezzi arrangiati in una versione più aggressiva, un successo: è vero che io giro a mio nome, ma dietro di me ho una vera All Stars Band, tutti musicisti blasonati. È davvero bello poter suonare con musicisti dotati: questo ti permette di poter arrangiare i pezzi ogni volta, in base alle esigenze, senza per forza restare fermi al jazz. Il fatto poi di avere a riferimento i cantautori classici come Conti, De Andrè, De Gregori e, accanto a questi, i nomi di esponenti di musica fusion, permette di andare a scavare un po’ più a fondo tra le diverse forme di musica.
Il tuo primo disco si intitola Sotto gli occhi del mondo…
Il disco parte da un concetto: tutto ciò che accade, che ci succede, che vediamo, che ci raccontano nel quotidiano, ci ha resi immuni, come se avessimo degli anticorpi. Le cose oggi ci passano davanti, ci scandalizzano al momento forse, ma poi non lasciano un grande effetto. Tendiamo a dimenticare presto tutto o peggio tendiamo a guardare la cronaca come se fosse normale. Prendiamo l’esempio dei clandestini: tutti i giorni ci sono sbarchi eppure non ci sconvolgono i racconti, anzi, ci stanchiamo di queste storie. Sotto gli occhi del mondo è una sorta di richiesta: trovare uno spunto per riflettere su questi eventi che ci passano davanti, un invito a mantenere quello spirito critico, quella capacità di indignarsi, che troppo spesso manca.
Quando ho avuto il disco per la prima volta tra le mani, istintivamente, leggendo il titolo, ho immaginato che intendessi il mondo come una sorta di deus ex machina, che muovesse gli uomini e le loro storie, come se fossero soggetti passivi. Ascoltandolo, poi, ho invece intuito quanto la tua visione fosse antropocentrica.
È vero. È esattamente così.
Questa visione si riflette poi fortemente anche nel modo di raccontare la cronaca, materia principe del tuo lavoro. Non ti limiti a riportare un fatto. Lo rivivi in prima persona mentre lo canti.
Noi siamo lo specchio di quello che succede. Il fatto di fermarsi su quelle cose che ti colpiscono è fondamentale. Nel mio caso, mi stimola molto. Mi dà un senso anche di preoccupazione. Però non ha la logica di voler insegnare qualcosa. È solo uno spunto: vedete quello che succede? Cercate di tenerne conto. Il mondo è di tutti: non è che noi siamo qui e stiamo bene e quindi siamo autorizzati a non interessarci di ciò che accade ogni giorno dall’altra parte del mondo. Questa è l’intenzione. E poi da lì vai a toccare brani che sono l’esempio. Una giornalista turca mi ha telefonato per un’intervista sulla canzone dedicata ad Ocalan, Apo. È stato emblematico come la tv per la prima settimana abbia elevato questo guerriero liberatore del popolo curdo ad eroe della situazione e poi una settimana dopo il nostro presidente del governo del momento lo consegna ai Turchi e diventa improvvisamente un delinquente. Senza essere un esperto del PKK, ma solo con un po’ di interessamento, ho cercato di capire le questioni che lo hanno coinvolto e inevitabilmente ti chiedi se è stato un eroe o un delinquente per davvero. Sono quelle cose che ti lasciano un po’ basito. Ti domandi: “ma dove viviamo?”. Poi guardi la televisione e te lo presentano in quel modo là. Questo però mi fa riflettere e mi dico che bisogna che la gente sappia, che questo resti un attimino. La persone devono avere la possibilità di farsi un’idea di quello che succede.
La musica ha dunque anche una funzione didascalica, divulgativa, secondo te quindi?
Secondo me sì. Tu, in quanto musicista, racconti storie. Racconti emozioni. Nel momento in cui le dai, è giusto anche che tu faccia riflettere. Non deve essere un insegnamento. Piuttosto deve essere qualcosa che vada a stimolare la mente.
Nel brano Cuore nel pallone, il calcio è l’espediente attraverso cui osservare le dinamiche del popolo italiano. Me ne parli?
Gli italiani diventano nazionalisti solo quando giocano a pallone. Se poi vai a vedere bene, ciascuno di noi lotta con il paesino che ha accanto, dimostrando che la realtà dei fatti è ben diversa.
Quindi non è uno stereotipo quello che descrivi, ma è la realtà così come si presenta?
Esatto. Ho sentito un’intervista su un giornale inglese secondo cui il calcio è visto un po’ come se fosse una religione: se uno nasce buddista o musulmano, lo sarà per tutta la vita. Così nel mondo del calcio: se nasci, milanista, interista o juventino, lo resti poi a vita. Questo a mio parere non è un bene. Io, da sportivo quale sono, ho sempre giocato a calcio. È vero, sempre e solo per divertimento. Eppure, quando un giocatore gioca meglio di me, non posso non notarlo. Quando la mia squadra gioca con un’altra, migliore, è giusto perdere. Non si può pretendere di vincere sempre per forza e magari solo per fortuna. Bisogna meritarselo. Ciò però non avviene quasi mai, perché la gente è ottusa: va bene un giusto agonismo, ma con lealtà e correttezza. Oggi i tifosi sono animali che mancano completamente di questa obiettività. Una cosa che mi piace di quel pezzo è quando dico “in vetrina caramelle di un mondo di carta velina”: queste donne che vengono messe lì a fare la loro comparsa in mezzo a questa bolgia di tifosi.
Quanto questa ottusità si riflette nel mondo della musica?
Questo discorso non mi appartiene. La musica è bella quando è suonata bene, come dicono in tanti. Se suonata bene ha un significato. Però sai, uno fa musica perché ha qualcosa da dire. Se non hai niente da dire, è inutile che lo fai. Purtroppo quando sei vincolato perché lo fai per lavoro, probabilmente devi fare musica e scrivere canzoni perché sei costretto a farlo. Tanti artisti famosi, allora, quando hanno più di un pezzo buono, quelli in eccesso li conservano per un eventuale nuovo disco. Io ovviamente non sono a questi livelli: quindi quando ho da scrivere, scrivo, altrimenti evito. Quello che faccio lo faccio perché ci credo e perché mi piace. Non sento l’obbligo di un genere, di un modo nel fare musica, di un’etichetta. Non ce l’ho, non mi interessa, non mi riguarda, non è un problema mio.
La tua presentazione ha inizio con una citazione: “la vita è l’arte dell’incontro”. Nell’era del virtuale, quali incontri invece hanno in qualche modo influito, positivamente o negativamente, sua tua carriera?
Io penso che tutti gli incontri servano e influenzino. Quando parli con qualsiasi persona, questa ti lascia qualcosa, perché ognuno può avere qualcosa da dire. Poi di incontri se ne fanno tanti e ognuno contribuisce a suo modo.
Cito una tua frase tratta da L’ultima grande balena americana, “agli americani non interessa molto la bellezza”, per parlare proprio di Bellezza. Che cos’è per te? Cosa rappresenta?
In un certo senso è una forma estetica. Tutto quello che facciamo, tutto quello che ci circonda deve avere un contesto però. È una domanda tosta questa. Presuppone un’ora di dissertazione.
No, dai. Mi piace sempre curiosare tra le diverse angolazioni da cui si possono approcciare certi concetti, assolutamente ampi.
A me piace parlare di bellezza, anche in senso estetico, quando penso alle cose nel loro ambiente, perché così hanno un significato e un posto giusto e coerente. Per me è un concetto che si estende a tutto, al di là della bellezza femminile, della bellezza dei luoghi. È una forma che si adegua ad ogni cosa, purché giusta nel suo contesto.
Lettere di soldato. Mi ha colpito la frase “poche parole da sussurrare/e non è un segnale razionale/solo un linguaggio da decifrare”…
Parli di un testo pesantissimo. Lettere di soldato è un macigno. Parla della nuova casa d’Oriente. Parla del problema della guerra tra popoli che si uccidono tra di loro. “Non è un linguaggio da decifrare”: è tanto difficile immaginare come possa sistemarsi la situazione in Palestina. Ormai sono passati anni e anni e questo vuole essere il senso della canzone. Nel ritornello, “innalzo al cielo una rosa”, introduce il tema dell’amore in un pezzo che è struggente, in cui si parla di cose molto dure (“non è chiesa, non è religione… ma fosse comuni sì, deportazioni”). Si fa fatica a trovare una logica, il perché di queste cose. Eppure l’uomo continua da sempre a farsi del male. E qual è la ragione? Tu la conosci? Io non riesco ad immaginare cosa possa essere. Io che poi sono una persona “buona”, mi viene difficile da pensare di poter ammazzare un altro, di agire per interesse e simili. Questo popolo vive invece un dramma, e per noi è incomprensibile. Quella frase che hai citato è centrale: è la sensazione che io percepisco senza però avere soluzioni. Preferisco vedere allora la situazione in modo poetico, attraverso l’amore del soldato.
Tornando invece alla musica. Il tuo è un disco polistrumentale. Come sarà la realizzazione live del disco? È previsto un tour?
Abbiamo presentato il disco live al Goganga di Milano. Adesso invece stiamo preparando il tour per ottobre-novembre. Quando suono, io mi esibisco con la band al completo. E mi piace molto questa cosa. Quando ti esponi con musicisti così bravi, hai modo di dare molto più spazio all’arte. Ad esempio certi temi nel disco, subiscono variazioni: conservando magari la melodia principale, alcune note vengono allungate, altre cambiate o accorciate. Il musicista ha la possibilità di esprimersi in base a come si sente quella sera, così che ogni serata abbia un’evoluzione differente rispetto alle altre. Questa è poi la realtà dei jazzisti. Io odio quei concerti in cui si dice che la durata deve essere di un’ora, quaranta minuti e ventotto secondi, con l’artista che dice ogni sera le stesse identiche cose. Per me non è così: questa sera va così, ma sono certo che domani sera andrà in modo sicuramente diverso. Il live deve essere vero e libero, comprese le pecche e gli incidenti di percorso. È un concerto reale, non di quelli in cui accendi il computer sintonizzato con sei mixer e parte la musica. Ogni canzone può avere durata variabile a seconda dello spazio che decide di dargli il musicista. Questo per me è fondamentale.
Il viaggio, a metà tra metafora e realtà, è certamente il filo rosso di Sotto gli occhi del mondo. Leggendo la tua biografia si deduce un certo interesse verso l’estero, anche per i tuoi studi in campo diplomatico. Mi racconti uno dei tuoi viaggi?
L’africa. Ho fatto il mio primo viaggio in Africa nell’81. Dovevo attraversare tutto il deserto. Ho visitato la Tunisia, l’Algeria, la Nigeria e il Mali. Facevo l’autista del Land Rover e il meccanico. Ero un ragazzino, avevo ventun’anni ed ero con persone di quaranta che magari era già la sesta, settima volta che facevano il giro del deserto. Conoscevano anche i Tuareg e studiavano per la DeAgostini una tribù nomade. Così ho fatto questo viaggio diverse volte, vivendo un’esperienza bellissima. Sono posti che ti prendono per restarti dentro per tutta la vita. Però sai, a ventun’anni vedi le cose in un certo modo, in più io ero un ragazzaccio e non riesciuscivo nemmeno a cogliere tutto: lo facevo più che altro per spirito di avventura. Quello ce l’ho ancora oggi, ad esempio quando vado via in barca a vela: lo faccio da diversi anni e mi piace proprio poter vivere la natura, il mare, la pesca, al di fuori della civiltà. Vado a cercare isole sconosciute. Consiglio a tutti la Grecia e le sue 2400 isole: tolte le cento turistiche, ne restano una quantità infinita su cui ad agosto non c’è nessuno. Cerco molto quella solitudine. Da questo punto di vista il mare e il deserto si assomigliano. I viaggi che mi hanno impressionato maggiormente sono quelli che riflettevano questo spirito di avventura. Non ho fatto invece molti viaggi “culturali”, per città e musei: nella mia testa, che probabilmente sarà sbagliata, sono viaggi in cui mi vedo coinvolto da vecchio. Per adesso preferisco respirare l’aria e i profumi della natura che mi piace nei suoi aspetti più imprevedibili. Come dicevo prima, a ventuno anni non avevo lo spirito critico e l’attenzione per quello che vedevo. Ad esempio: ho partecipato nel mio primo viaggio in Africa ad un matrimonio Tuareg. La loro cultura è di tipo matriarcale, quindi quando una donna si sposa, è il marito ad andare a vivere nella sua casa. Inoltre, mentre le donne sono libere e vestite normalmente, gli uomini sono interamente chiusi, coperti. Ho assistito al loro rito con curiosità e a volte paura per le loro usanze. Me ne accorgo adesso: a quell’età non te ne rendi conto invece. Dai trent’anni invece ho iniziato a vedere la vita in modo diverso: sono diventato una calamita, una spugna, facendo tutto mio ciò con cui entravo in contatto.
Se dovessi scegliere tre libri e tre dischi da portarti dietro in uno dei tuoi viaggi, quali sceglieresti?
Non vado mai via con tre libri e nemmeno con tre dischi. Adesso mi porto sempre dietro il mio Ipod su cui ho la possibilità di ascoltare milioni di canzoni.
Ma così non vale.
Ah (ride)… quindi se proprio dovessi… sicuramente dischi dal mondo della fusion. Non voglio dirne uno o un altro. Ce ne sono tanti. I libri invece… mah… ne prenderei sempre uno nuovo, perché non riesco a rileggere un libro vecchio. Ci sono tantissimi libri che mi sono piaciuti. Leggo continuamente. Però non è che abbia un libro per eccellenza. C’è talmente tanta bella roba in giro. Come fai a scegliere? Tu ce li hai tre libri che invece ti porteresti via?
Io sì. La casa degli spiriti di Isabelle Allende. Ad un tratto nel folto del bosco di Amos Oz. E poi un libro di poesie, Neruda forse.
No, io no. Non riesco proprio a rileggere un libro che ho già letto. Io poi addirittura me li dimentico.
Anche io. È proprio per quello che li rileggo.
Pensa però a quanti non ne hai letti ancora.
Lo so. E sono curiosa. Ma non mi piace lasciare andare ciò che ho già letto. Grazie mille.
Grazie a te. Non mi hai chiesto nulla sulle mie canzoni d’amore, e di questo ne sono molto contento.
Sì, è vero. Mi sono soffermata più sui pezzi che maggiormente rispecchiano il taglio dato dal titolo stesso del disco.
Tu le hai sentite tutte le canzoni? Che cosa ne pensi dei brani d’amore?
A me il disco è piaciuto molto. Come dicevo anche prima, trovo che l’idea del viaggio sia dietro ad ogni suo pezzo. L’amore non interviene ad interrompere, ma piuttosto ad arricchire. Crea continuità per la sua non banalità. Non è un disco scontato, a mio parere.
Non è scontato. Non scrivo nulla a tavolino. Il pezzo per Pantani, ad esempio, è nato nel momento in cui io ho provato quelle sensazioni, dopo averlo conosciuto di persona nell’anno della sua caduta. E così per ogni brano.
Grazie ancora.
A te.