La schiena rivolta al pubblico, la nuca a disegnare una delicata esse con la linea delle spalle, Luisa Cottifogli guarda altrove, immobile, mentre gli accordi di Pithecanthropus Erectus si alzano, si ri-vestono, s’impadronisco dell’atmosfera e la dipingono, con la delicatezza delle tinte ambrate, l’irruenza dei seppia, i particolari colori di certe diapositive jazz. Inizia così, d’impatto e denudante, il breve ed intenso viaggio attraverso Play Mingus, fra le regioni e le ragioni dei Quintorigo, ospiti di Rock Files per Lifegate Radio. Nessun gioco di luci fra i corpi degli strumenti, sulle fronti di Valentino Bianchi, di Andrea e Gionata Costa, di Stefano Ricci: solo ossigeno, intuizioni, passione, la procace, percepibile umiltà di una scelta avventurosa, della sfida, di talenti nostrani, onesti. E’ Charles Mingus Persona il cuore pulsante di questa produzione/spettacolo, stream of consciousness di visioni suscitate dalla sua opera e dalla sua vita: lo si intuisce chiaramente ascoltando Luisa Cottifogli leggere con eleganza, con un tatto particolare, con la fronte puntata dritta verso la platea, un passo da Beneath the Underdog, autobiografia dell’artista.
Le parole di Mingus graffiano, la voce di Luisa ne sposa il senso, lo affranca dalla poetica per restituirlo all’etica, all’esperienza, all’esperimento d’umanità. Perfezionista ed impulsivo, Charles Mingus avrebbe sicuramente annuito alla bellezza di Jelly roll, all’eclettismo delle corde vocali di una donna ispirata ed audace, al sorriso swing degli arpeggi, delle ance; Fables of faubus gli avrebbe strappato uno schioccare di dita al ritmo impagabile della storia che cede i propri argomenti al contrabbasso. Perché questa musica è storia, è radici, preghiera: Freedom e Oh lord don’t let them drop that atomic bomb on me mimano le correnti di un Mississippi universale, la direzione dei piccoli sguardi di piccoli uomini diretti ciascuno verso il proprio angolo di memoria oltre i confini degli avvenimenti, dentro agli ingranaggi degli eventi, con la paura accovacciata fra le scapole e la speranza calata sulla fronte a consentire un po’ di riposo. I Quintorigo abbracciano le sensazioni, gli argomenti, certi fantasmi, e lo fanno con una devozione umanissima. “Non jazzisti ma appassionati di jazz” (così dice di sé, di loro, Valentino Bianchi), riescono ad approcciare la complessità dell’opera di un mostro sacro del jazz con curiosità e rispetto, lasciando intuire l’emozione che è sorgente e delta di questo loro progetto. Non si inventano daccapo, non si snaturano. Ascoltare la loro Grigio (Grigio, 2000), Frankenstein e Luglio Agosto Settembre (Nero) (Il cannone, 2006) , lo chiarisce: evolvono, maturano, crescono delle proprie esperienze attingendovi, rivolgendosi alle meraviglie altrui con un grazie appuntato all’occhiello delle reinterpretazioni, indossando l’abito elegante di una coerenza senza prezzo. Ascoltarli è appagante, rigenerante: la follia degli accordi, l’organza della voce, i tragitti d’estro, le contaminazioni, negano ai timpani il languore delle abitudini perché li invada il piacere. Joni Mitchell, ballerine di charleston, scorci di deserto, il sorriso di Bruno Lauzi, percussioni senza pelli, un diapason, calore: la serata si chiude così, fra le parentesi graffe di un desiderio quasi straniante di sorridere dicendo la verità, di lasciare che la musica vinca, su tutto, da qualsiasi angolo si decida di sbirciare la vita. Musicisti straordinari, una cantante in rima con i loro slanci: un unico corpo, in volo, to the neon of the sun ( Neon-Sun, In cattività, 2003).