Chiudi gli occhi per ricostruirti un altrove opportuno a queste note che ti investono il corpo, che non ti lasciano in pace i tendini. Agiti i piedi sul pavimento facendo il verso agli accenti ritmici. Muovi la fronte come annuendo alle intuizioni di ciascuna battuta. Vedi New York, una città femmina, vanitosa, di cemento e cabine telefoniche, con quarant’anni di meno e le sue novità da prendere, da consumare, da rimandare alla memoria, cui attingere con il senno di poi delle buone cose da trattenere. L’idioma che ti ipnotizza ha l’intensità e la leggiadria delle cose crudeli sussurrate con leggerezza, perché ti tocchino senza lasciare lividi. Uno ad uno i pezzi ti scendono in gola e s’allargano alle mani, alle braccia, fino a raggiungere le spalle, scostando le apatie di un metro più in là. Sei seduto al tuo tavolino eppure sei lì, in piedi, davanti ad un palco che esplode dall’amplificatore per guadagnare ogni centimetro quadrato d’aria, di parete. Sei in piedi, il tuo respiro danza le simmetrie degli accordi, il movimento delle misure, percorre i solchi di chitarra, le effusioni elettriche delle corde.
Ti senti bene, vivo e vegeto, mentre le canzoni ti conquistano, una ad una: Cold water e Like never before, Floor e Pepper & Narcotics, Martin e Bucky-Bucky, prepotenti e sornione, aggressive e divertite, scettiche e realiste. Incedono, si sdraiano nello spazio dell’attimo e lo afferrano, lo scuotono, lo coccolano: l’underground che mastichi ha il buon sapore dell’urgenza creativa, della liberazione, dell’esperienza. Loose, G.B.Lost his mind, Shoop, Neighbour, Shag, Wasting time: dolore, humor, sogni, morte, crudeltà, spensieratezza sono le facce di un dado di grooves che Andrea Fusari e Giovanni Ferrario traggono d’istinto, intuendosi perfettamente, mentre la chitarra elettrica di Davide Mahony sfoga l’impellenza cardiaca mappata dalla batteria di Giuseppe Mondini. Il battito è crudo, incalzante, a tratti malato, avido; le aperture elettriche sono antidoti, allucinazioni, schiaffi al silenzio; la voce menziona il calore, sussurra il gelo, sorride alla sete. Guru Banana conosce la nostalgia e ci gioca: ti fa l’occhiolino mentre ne vieni investito, guarda altrove mentre t’accorgi che è tutta un’altra musica. Lasciando il downstair del Dynamo (D-Day), ti volti e vorresti ringraziare di nuovo: per quest’ora di empatia, di energie, di generosità; per la passione e il senso; per le buone occasioni e le mimiche intatte dell’amicizia, di certi nostrani, spudorati amori.