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Un disco per dire grazie: intervista a Terje Nordgarden

Il 22 Febbraio abbiamo incontrato Terje Nordgarden al Modo Infoshop di Bologna in occasione della rassegna InModo Acustico. Prima del concerto, sorseggiando birra mentre lui preparava la scaletta del concerto, abbiamo fatto una lunga e piacevole chiacchierata. Si è parlato di Dieci, il suo ultimo album, della vita “on the road”, dell’Italia musicale e della sua terra natia. (Si ringrazia La Fabbrica per la collaborazione)

Nell’ultima intervista, che risale a due anni fa, affermavi che “il viaggio” è il tuo stile di vita e finire di viaggiare è un po’ come morire. Nel tuo ultimo disco hai fatto invece una sorta di viaggio nella musica italiana: come ti è venuta questa idea?
Volevo tentare un disco mio in tutto e per tutto, cantato in italiano. Non volevo però fare il passo più lungo della gamba cercando di scrivere in italiano, così ho trovato qualcosa nel mezzo. L’idea piano piano negli ultimi due anni si è sviluppata, portandomi sulla strada dell’interpretazione e dell’omaggio ai vari artisti italiani che ho conosciuto. Scegliendo i brani, l’idea poi ha preso forma. È stato un viaggio anche nel passato, un’occasione per ripercorrere i dieci anni passati dal primo disco fatto con Paolo Benvegnù in Italia, un paese che è stato fondamentale nella mia carriera.

La scelta dei brani come è avvenuta? Gusti musicali tuoi personali o anche per rapporti creati direttamente con gli altri artisti?
Dovevo necessariamente fare delle scelte, limitare il numero di brani. Uno scopo del disco era anche di rivolgere un ringraziamento alle persone che sono state importanti per me, musicalmente ed umanamente. Quindi ho scelto brani di artisti con i quali ho avuto almeno una bella chiacchierata! Sarebbe stato scontato buttarsi su brani di De Andrè o Battisti, volevo fare un disco più personale, che non suonasse come il classico disco di cover.

Nel disco ti sei adagiato sui brani originali senza stravolgerli completamente. Però si riconosce chiaramente il tuo stile…
La melodia è importante, quella è il filo che tiene tutto insieme, il cuore di una canzone. Intorno a questa poi ti puoi muovere. Alcune canzoni però le abbiamo stravolte, cercando di aggiungere i miei colori.

Si nota uno stacco molto forte dai tuoi precedenti dischi, si percepisce lo sforzo per avvicinarti a melodie che, appunto, non sono “tue”.
È vero. Poi c’è anche il lavoro di Cesare Basile che ha dato un bel tocco. Abbiamo utilizzato il suo studio, che è un luogo crudo, essenziale, nel quale è possibile lavorare come si faceva un tempo: dal vivo tutti insieme. Chitarra, basso e batteria insieme, poi magari aggiungendo la voce. Tutto molto suonato, vero. Almeno sei dei brani nel disco sono stati registrati così.

Con gli autori dei brani originali come ti sei rapportato? Hai comunicato questa tua intenzione e poi hai avuto dei riscontri o collaborazioni?
Ho cercato di parlarne con loro… ma poi sono anche amici quindi non dicono “eh, ma che brutto lavoro che hai fatto!”. Riascoltando il disco riconosco alcune cose che potevano essere fatte diversamente, ma quando uno lavora due mesi e dà il massimo va bene così. Comunque penso che tutti i brani siano riusciti, anche se mi angoscia paragonarli a quelli originali. Si tratta di canzoni delle quali mi sono innamorato, ed è stato bello buttarcisi dentro.

La lingua italiana quanto è stata una difficoltà?
Il mio accento scandinavo è rimasto. Di questo ne abbiamo parlato subito con Cesare: meglio ripulire completamente ogni parola? Sarebbe stato un lavorone, che avrebbe avuto senso per un disco che voleva mirare ad avere un grande successo commerciale. Questo non lo era: doveva essere un documento sulla mia storia, e sulle vite degli altri che ho incrociato in questi dieci anni. E doveva essere anche genuino. Per questo il lavoro si è spostato più sulla metrica, le cadenze, e non tanto l’accento che è invece naturale. Un altro lavoro importante è stato fatto sull’interpretazione con la mia voce: come rendere credibile una canzone che tutti conoscono come, per esempio, dei Marta sui Tubi?

Gli accenti, tutti in generale, spesso suscitano ironia. Tu hai mai avuto paura di apparire quasi come una caricatura?
Certo, anche oggi. Ad ogni concerto mi angoscia attendere di vedere come risponde il pubblico. In Italia il pubblico non è più abituato a sentire uno straniero che canta in italiano, accadeva negli anni ’60, ora al massimo un brano ogni tanto. Io invece ne faccio cinque-sei ad ogni concerto, alternandoli con altri miei cercando di trovare un filo che li unisce. Se poi qualcuno nel pubblico lo trova “buffo”, credo che possa comunque essere importante per la coscienza delle persone. La musica ha un ruolo così importante nella vita quotidiana, nella crescita di tutti noi, e spero che anche questo disco possa averlo. Penso anche a Erlend Øye dei Kings of Convenience che sta tentando con la lingua italiana… queste esperienze potrebbero aprire e fare bene sia agli artisti che al pubblico. (Il caso ha voluto che durante il concerto di Nordgarden tenutosi subito dopo l’intervista, proprio Erlend Øye si trovasse tra il pubblico ad assistere con assoluta partecipazione, ndr).

Ci sono brani che inizialmente pensavi di inserire nel disco ma che poi sono rimasti fuori dall’album?
Alcuni sì, e mi è dispiaciuto alla fine non riuscire a continuarne il lavoro. Volevo portare, per esempio, canzoni di Giuradei, di Pietro De Cristofaro (Songs for Ulan), ed anche di un mio amico qui di Bologna, 33Ore. Una regola che però ci eravamo posti per questo disco era l’immediatezza. Se un brano riusciva in modo veloce ed offriva subito le giuste sensazioni con la mia voce, allora quello doveva essere scelto. Come per esempio è accaduto con Non è la California di Marco Iacampo: solo le prime frasi… bam! Arrivano forti.

Pur non essendo un brano famoso come invece posso essere altri, come quello della Donà o dei Marta sui Tubi…
Sì, ma non è quello l’importante. Quello è un brano che colpisce! Marco Iacampo merita davvero tutto ciò che si può meritare un artista. Il problema oggi è che tutta la situazione è troppo superficiale. Le etichette grosse lavorano solo su “artisti da reality”, perchè hanno già un nome da vendere.

Questa sera a Bologna sei da solo: sarà così per anche le altre date?
Sì, per questa primavera sì. Poi in estate partiremo con il tour insieme a Marcello Cadullo al basso e Massimo Ferrero alla batteria, musicisti di Cesare Basile.

Oltre all’Italia, porterai questi brani anche all’estero?
Ho fatto dieci concerti in Germania, portando qualche brano. Era ancora la presentazione di You gotta get ready. La gente era affascinata, ma non ha senso buttare ad un pubblico non italiano brani del genere. L’ho fatto un po’ per godere di un effetto “esotico” e per far comprendere cosa sto facendo qui in Italia. Questo disco vuole essere anche un tentativo per vedere cosa ancora riesco a muovere nel mercato italiano. Probabilmente poco, ma va bene così!

Dell’immaginario on the road tu ne sei l’incarnazione: sempre in giro con la tua chitarra. Come si riesce a bilanciare il piacere di essere sempre in movimento con le mancanze più semplici, come gli affetti lontani oppure la crisi che credo colpisca tutti, musicisti compresi.
È stancante, certo. Quello di questa sera è il sesto concerto di fila… bello, ma sono contento domani di tornare a casa. Mi piace molto questa vita “on the road”, ma mi piace molto anche il contrasto. Cinque, sei concerti di fila, poi a casa. Catania è ben collegata e non mi è difficile: posso partire presto, trovando volipiù economici. Andare e tornare spesso, così posso stare con la famiglia… sono diventato papà sedici mesi fa, e non voglio fare come il mio papà che era marinaio ed andava via per tre, sei, nove mesi!
Comunque questa alternanza è la cosa migliore. Diventa equilibrio. Il pericolo è la monotonia. Non importa andare lontano, si può vivere anche sempre nella stessa città ma avere una vita varia, ricca di esperienze diverse.

Com’è il tuo rapporto con la tua terra natia? Qui al Modo Acustico i prossimi concerti organizzati da La Fabbrica hanno in programma artisti che provengono dal Nord Europa. Dimmi quali sono le cose che ti colpiscono maggiormente di quell’ambiente musicale e di quello italiano.
Differenze ce ne sono tante, soprattutto a livello culturale. Io vedo comunque in Italia un ambiente che ha voglia di giocare e sperimentare con la musica. Anche altrove, certo… c’è un movimento globale molto creativo. Tanti ragazzi hanno voglia di sperimentare nuovi suoni, e pure io, che rappresento “la vecchia scuola” con chitarra e voce, sto cercando di sviluppare suoni nuovi. Prendo ispirazione da tante realtà per creare il mio mondo. Come i Volcano Choir o una band che ho scoperto e non credo sia conosciuta qui: Lost Landers, davvero di altissimo livello. Tornando all’Italia, io penso che il palcoscenico italiano sia più sano che mai. C’è tanta speranza per il futuro.

E in Norvegia come ti vedono? Come un alieno?
Già, là sono visto un po’ strano. Ma questo lo avevano capito anche prima della mia partenza. Infatti per certi versi mi sono trovato molto più a casa qui.

Non è la California – video

Playlist – streaming Spotify

Abbiamo selezionato una piccola playlist di cinque brani tra quelli originali che Terje Nordgarden ha reintepretato nel suo album Dieci: Marco Parente, Iacampo, Paolo Benvegnù, Cristina Donà e Marta sui Tubi.
L’intero album di Nordgarden è ascoltabile qui.

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