Torre Annunziata, Napoli. 10 maggio, un sabato sera tiepido. La luna che s’appresta a riempirsi e il mare morbido da spiare dalle traverse del Corso Vittorio Emanuele III. Tra il cinema e una sede di partito, al numero 356 una porticina che nasconde il Debaser. Un locale dove si prova a dare spazio alla musica. Un locale dietro il quale si svela un nome in particolare: Pietro di Lietro. Ha la faccia di chi si innamora, di chi rischia pur di creare un rapporto di coerenza tra piacere personale e condivisione. Il lato bello di certi eventi è quella sottile dichiarazione di stima e amore di chi organizza, nonostante i limiti, le difficoltà, la sordità di un pubblico sempre più pigro e assente. Pietro dell’artista che ha scelto di ospitare è innamorato, appunto. “Io volevo che questo concerto si facesse”. Porta queste parole sulla faccia da un bel po’. Il concerto in questione è quello del milanese Giuliano Dottori, cantautore molto apprezzato nel giro cosiddetto indie. La data al Debaser è parte del tour di presentazione de L’arte della guerra Vol. 1, terzo disco della carriera. Un disco importante e profondo, sia in termini artistici che personali. Si tratta di una svolta, di una prova di attitudine più trasversale, pop, se si vuole. Temi più universali che innescano un processo di identificazione dettato da quella crescita che i grossi terremoti emotivi provocano. La morte, l’amore come fine e come inizio, la solitudine, il silenzio, la lentezza, la pazienza, l’attesa. Ingredienti con cui rimescolare e addomesticare quel demone onnipresente nella vita: il conflitto. Il conflitto è metafora colta e ardita di questo disco che nel titolo tende la mano al più antico trattato di strategia militare, firmato dal generale Sun Tzu nella Cina del VI-V sec. a.C. Un messaggio importante che dal mondo antico arriva alla nostra frenesia, alla nostra guerra. Vincere senza combattere, conoscendo se stessi e gli altri.
Il palco fa mostra di una strumentazione ricca e in perfetto ordine, sembra voler essere la prova di canzoni davvero “suonate con amore e dedizione”, esattamente come recitano i credits delle copie adagiate nella piccola valigia in un angolo del locale. Le postazioni sono quattro. Ai fedelissimi Mauro Sansone (batteria e altre meraviglie) e Marco Ferrara (basso, cori) si aggiunge Francesco Campanozzi (chitarre, tastiere, cori).
Il concerto si apre con Quando tornerai a casa, mettendo subito in chiaro una bella dinamica da band affiatata e coesa. Il mondo dalla nostra parte e Estate #1107 si confermano tra i brani più efficaci del nuovo lavoro, dotati di refrain dal notevole piglio e di un mood in equilibrio tra delicatezza e sapienza pop. Occhi dentro gli occhi, infilata tra le due prima citate, anche live è la perla nera del nuovo corso: ricca di una deriva floydiana che mette in bella mostra le doti chitarristiche di Dottori. È quando spinge sulla voce e sulle corde del proprio strumento che si amplifica quel dolce talento fatto di introspezione e sguardo verso il mondo.
Dopo I fiori muoiono quando ci rattrista perderli, arriva un tuffo nel passato recente con Chiudi l’emergenza nello specchio, È stato come, Nel cuore del vulcano (a cui si affida un’altra bella deriva che definire puramente rock vuol dire renderle giustizia), Tenerti stretto un ricordo. L’eccezione di questa parte del concerto è Forever giovane, inedito che dovrebbe essere incluso nel Vol II: fresco, con un ritmo incalzante, e un titolo che è un omaggio a quel Dylan che Dottori si porta sempre dietro tra i fantasmi di formazione.
Il bis è tutto per Sirene e vampiri e Le vite degli altri.
L’impressione è stata ottima. Una band che gioca a mescolare ad un stile netto e personale le lezioni della moderna scuola americana (Grizzly Bear, Fleet Foxes, Local Natives). Su tutto, naturalmente, il senso denso e metaforico dei testi. Cantautorato, sì. Raffinato, elagante, ispirato, e con una grande verve live. Tradotto vuol dire anche infinita passione per il mestiere di musicista. Non risparmiarsi per innescare quel sottile gioco di scambio col pubblico. Per chi fa questo l’augurio lo rubiamo a Dylan: “May you build a ladder to the stars/ And climb on every rung,/ May you stay forever young” (Forever young, Planet Waves 1974).
Galleria fotografica di Serena Mastroserio