In una piccola città lacera con piccola gente lacera c’era un piccolo cantante lacero che cantava piccole lacere canzoni. A volte, alcuni avvenimenti di vita sono destinati a segnare nel profondo gli animi delle persone sensibili; scavano piaghe indelebili che non smettono mai di bruciare per tutto il resto della vita. La vita, un regalo misterioso da parte di ignoti, sbrindellata dai mostri dell’alcool e delle droghe. Vic Chesnutt nasce orfano, verrà adottato. Nel 1983 sotto l’effetto di alcool perde il controllo della propria auto finendo fuori strada. Arti inferiori paralizzati e sedia a rotelle ma vivo, chissà perché in fondo. Poi ci sono quei giorni. Quei giorni in cui un accadimento, un incontro, possono cambiarti la vita. Quei giorni simili a tutti gli altri e dai quali non ti aspetti nient’altro che la solita routine. Entri nel club dove suoni ogni martedì sera per un po’ di birra o whisky. Ti piazzi lì con la tua fedele chitarra e inizi a sputare tutto quello che hai nelle viscere, sapendo che quando tornerai a casa, da solo, ti sentirai più vuoto di prima.Ma quella sera tra il pubblico del solito pub c’era una persona insolita. Uno che si innamora a tal punto delle storie di Vic Chesnutt che si propone di produrgli il primo disco. La cosa più importante non è che questa persona si chiamasse Michael Stipe, bensì che Vic Chesnutt, ventiquattrenne, entrò nel suo studio con la sua solita chitarra, registrando una quindicina di brani in meno di ventiquattro ore. Era il 6 Ottobre 1988. Il primo disco del piccolo cantautore e della sua piccola chitarra si chiamerà proprio Little ed uscirà nel 1990. Dieci brani, o meglio, dieci bozzetti di vita naturalistici e spesso autobiografici. Gli arpeggi di quella piccola chitarra sembrano imprimere in sé la pesantezza dell’esperienza del tempo, quella pesantezza che gremisce anche la sua voce. E c’è rabbia, c’è dolore, tormento, malinconia, energia, dolcezza, felicità, speranza. Vic racconta con amara delicatezza il suo sogno di danzare con Isadora Duncan, ballerina statunitense dall’espressività innata: “She was planning to diversify / and she sang I should do the same / so I whistled to her how I loved her the best / but she sang I can’t believe you own this attitude”. Danny Carlisle è soltanto un ragazzo che nonostante tutto vuole incessantemente sognare: “He’s barely grown and he’s used up most of his options / but still he would rather dream, dream, dream / still he would rather dream than fuck”. Bakersfield è un posto immaginario, meta di tranquillità da raggiungere una volta morti. La voce roca e secca canta la sofferenza, l’angoscia di chi ha paura di invecchiare, di chi pensa che andare a Bakersfield sia una strategia voluta e non un protocollo forzato: “Posters are falling, but who needs them at my age / I’ve learned to smile when I feel is rage / so i think i will go to bakersfield with Gabriel and Paul and I’ll hide behind the garbage cans while the holy platitudes fall”. Mr.Reilly è il personaggio protagonista di Una banda di idioti, romanzo di John Kennedy Toole: “Intellettuale, ideologo, fannullone, parassita, ghiottone, dovrebbe disgustare il lettore con i suoi giganteschi gonfiori, il disprezzo tonante e la sua battaglia personale contro tutti. Ignatius J. Reilly è l’insulto vivente al perbenismo e ai luoghi comuni, è uno slogan sovrappeso contro la mediocrità e il tran tran, è istinto e libertà allo stato primordiale e New Orleans è un territorio di caccia perfetto per le sue visioni a voce alta” (Marco Denti – Il Buscadero 2004). Mr. Reilly ha una filosofia alla quale nessuno da troppa importanza: “He says that any time in Baton Rouge, everything is the same / We stared into the cup but we would not see the bottom”. Le tastiere che arricchiscono Mr. Reilly si ritrovano in Speed Racer, una critica alla filosofia del danese S. Kierkegaard. L’idea di un ordine divino è essenzialmente bizzarra; le leggi di azione e reazione sono le più vicine alla verità nell’universo: “I’m not a victim / I’m intelligent/I’m not a victim / I am an atheist”. L’uomo moderno è come un Soft Picasso, dopo essersi liberato del suo ruolo do rubacuori è completamente malandato e sbigottito; con la testa tra le mani si ripete un epigramma fatale: “Live by the scam, die by the scam”. Ancora la libertà (Rabbit box), la perplessità sul significato simbolico del giorno del rigraziamento (Indipendence Day), il dolore e la tristezza che provoca l’adozione (Gepetto) tramite la metafora dell’adottato per eccellenza delle favole, Pinocchio. Il disco si chiude nel segno della poesia di Stevie Smith, in un brano low-fi sul quale il benjo di Joe Wiley ed il violino di Moira Nelligan cullano le tre voci (Vic, Moira ed Heli Wily) tra le incisive parole del poeta britannico: “Nobody heard him, the dead man but still he lay moaning / I was much further out than you thought and not waving but drowning”.
Credits
Label: New West Records – 1990
Line-up: Recorded on an October day in 1988 at John Keane’s gussled up studio by Michael Stipe, Mr. Keane at his swivel chair. Lynda Limnerdid angel voices, I did the rest, no juice, just well water
Tracklist:
- Isadora Duncan
- Danny Carlisle
- Gepetto
- Bakersfield
- Mr.Reilly
- Rabbit Box
- Speed Racer
- Soft Picasso
- Independence Day
- Stevie Smith
Links:Sito Ufficiale,MySpace
Un solo commento
Pingback: So easy to accept but so hard to understand: Vic Chesnutt-Elf Power @ Circolo degli Artisti (RM) 22/03/09 : Lost Highways