Attendevo. Dall’11 luglio, attendevo. Quel giorno c’era aria di tempesta; ricordo bene la calca, la festa, l’incendio emotivo che il cielo presto tentò invano di spegnere. E ora sono qui, pronto a ritornare su quelle strade, contrassegnate da orme di giganti gentili che nella musica italiana hanno lasciato segni indelebili. Cicatrici da bruciatura. Questa sera mi trovo all’Estragon di Bologna; loro sono di casa in questa città. Cammino frenetico sotto il palco che presto sarà calcato dai Massimo Volume. Si ripercorre, si rivive, si rinasce, si ripete. Tra il pubblico, pochi hanno avuto l’occasione di assistere ai concerti estivi, pochi li hanno mai realmente visti insieme su un palco. Tanti giovanissimi, pronti ad essere coinvolti in questo concerto – rito di iniziazione – che si preannuncia memorabile. A distanza di quindici anni dal primo album (Stanze, 1993), i Massimo Volume (ri)confermano l’attualità dei temi, l’immortalità della poesia e la longevità di un’espressione che definirla musica è riduttivo. Nulla di ciò che la band ha creato in questi lunghi anni è paragonabile ad altro: Massimo Volume è un concetto di onestà, perpetrato nel tempo, immobile nelle vesti, lucido di intenti, sincero come agli esordi.
Musica graffiante e dissonante, parole che scavano con gli spigoli di un canto che nel tempo mai è arrivato: Atto definitivo ne è l’esempio. Il ritmo è protagonista, scandisce ogni parola di Emidio Clementi; le chitarre solleticano con le unghie affilate, fino a squarciare. Le dita scivolano sulle corde: rumori metallici. Il plettro schizza come una scheggia in un tubo zincato. La pace è violata, e siamo solo all’inizio.
Le prime inconfondibili note de Il primo Dio scuotono tutti e, come in un enorme pistone, si incendia l’aria. Spingiamo tutti, facendo muovere un unico motore, perchè la magia di Mimì e compagni, questa sera, è renderci un unico grande braciere, ardente. Il magnifico pezzo, ispirato e dedicato ad Emanuel Carnevali, tende le corde dell’animo, e le fa vibrare. Le parole de Il primo Dio si fondono con quelle dell’Ultimo Dio (Fazi Ed.) di Clementi; le cucine d’America cantate nel brano si confondono con quel poco materiale che rimane in ricordo della vita di Carnevali, nel piccolo paese di Bazzano, a pochi km da Bologna. Lo spirito dell’autore fiorentino è nell’aria, ci osserva con la forza della sua poetica di eccessi e disagio forzato da destini “inClementi”. “Sono un vagabondo e semino parole da un buco della tasca”, e forse mai nessuno, meglio del frontman dei Massimo Volume, è riuscito a rendergli onore con tanta potenza evocativa.
Incubi strazianti, che tolgono il fiato dalla gola, assalgono La notte dell’11 Ottobre mentre la potenza travolgente di Seychelles ’81 incanta. La due chitarre indicono uno scontro feroce: armi da taglio, e in mezzo ci sei tu. “Come faremo ad uscire da questo fiume di merda puliti e profumati?“.
Desolata solitudine contraddistingue l’emozionante Città morta. Elegante batteria, delicate chitarre che si infiammano di disperazione, il basso è un cuore che pulsa. Siamo alieni, anche noi, perchè un po’ è vero: questa sera, per le strade vicino la fiera di Bologna, tra uffici vuoti, parcheggi e distese di cemento, “Nessuno ci ha chiesto dove saremmo andati / perchè quaggiù / quaggiù nessuno immagina chi siamo“.
La voce di Mimì è concitata, come in una corsa, come nel supplicare aiuto: Fuoco fatuo.
Stiamo quasi Per farcela, Dopo che un raro e brillante Esercito dei Santi ci ha illuminato. Quest’ultimo, in particolare, è qualcosa di rarissimo, offerto a noi come unico degno dono per “aver scalato i quarantanove scalini della saggezza“.
Una volta che si sono tolti gli ormeggi, e aver confermato che “dimenticare è un bene“, “è venuto il momento di andare” con Altri nomi. E così si parte, sul Viking Express, attraverso le Stagioni imprevedibili della vita. Questo è un viaggio, un viaggio incredibile: tutto è unito dalla poesia, dal progetto, da un unico pensiero che prende forma di parola in parola.
Vedute dallo spazio offre prospettive impensabili, dove “la gravità è solo un ricordo / la gravità che trattiene le mie urla / la gravità che vince le mie ragioni“. La musica scompone la fisica, la fisica opprime la mente.
Esattamente come in Stanze, con lo stesso ordine, i Massimo Volume ripercorrono la strada che era stata da loro incisa. Ororo e poi Alessandro, per poi fare un salto indietro, sempre nello stesso album con Ronald, Tomas e io: storia di disagi esistenziali, incubi urbani, mostri tangenziali.
Ma ci stiamo svegliando. Lo sconvolgimento avrà pace, o forse non l’avrà mai più.
Note come nubi che si diradano, echi che rimbalzano in interni vuoti. Il tempo si ferma, “tutto è immobile / resta la luce elettrica” (Manhattan di notte), non c’è nessuno intorno a me, perchè tutti adesso, dopo un’ora e mezza di concerto, tutti noi… siamo uno. “E’ così che si può immaginare la fine di tutto“. Dolce implosione di corpi ed anime. La musica disegna formule chimiche nell’aria: Vittoria, Egle, Stefano e Mimì orchestrano la fusione.
L’inarrivabile è qui: devo fotografarlo! Ma so che non posso. Non avrebbe senso. “Le cose non riescono a trattenere i colori / dentro questa foto gli oggetti sono solo macchie incerte / dai colori differenti“. Quello che vedo non può essere stampato, impresso, scritto su nessuna superficie. Quei colori possono rimanere solo negli occhi, e io li avevo visti prima del concerto, fuori da una pizzeria, in un uomo a cui chiedevo: “Incominciate a suonare alle 23? Facciamo in tempo a mangiarci una pizza?”, e lui: “Tranquilli, non inizieremo fin quando non vi vedremo entrare”.
“Grazie”. (Lost Gallery)