In occasione del prossimo concerto degli Ofeliadorme al Glue di Firenze (7 marzo), per una delle ultime tappe italiane del tour promozionale dell’EP The Tale, prima di una incursione di ben otto date in Germania, abbiamo parlato del nuovo corso “elettronico” intrapreso con Francesca Bono, carismatica voce del trio, che ad aprile rientrerà in studio per le registrazioni del nuovo album assieme ad Howie B.
Ofeliadorme è un progetto che già dal titolo rivela la sua ispirazione letteraria, col vostro ultimo EP The Tale spostate lo sguardo dalla poesia decadente alla mitologia classica: com’è nata l’idea di narrare la vicenda di Amore e Psiche?
La mia passione per la mitologia è piuttosto antica, risale ai tempi delle scuola, e da allora me la porto dietro. Va di pari passo con una certa fascinazione per la psicologia, ma anche per la sfera della sensualità umana.
Da amanti della poesia avete affrontato il mito, la sacralità del racconto, attraverso liriche di felice sintesi allusiva (che da sempre è la vostra), penso a versi come ‘Why are you aching for / Some kind of revelation?’: qual è il vostro metodo? Testi e musiche nascono insieme o queste ultime vengono a valle di un lavoro prima di tutto di scrittura?
Non abbiamo un metodo univoco. I testi li curo da sempre io e gli approcci variano di volta in volta. In linea di massima posso dirti che tengo molti quaderni, fogli, Moleskine dove appunto frasi, idee, riflessioni, disegni. A volte mi è capitato di scrivere testi in 5 minuti, prima della musica, in altri casi li ho scritti dopo aver composto la musica, e a volte addirittura durante il lavoro di composizione, affindandomi all”improvvisazione”.
Quel che posso affermare con un margine notevole di sicurezza è che probabilmente il mio modo di scrivere è più influenzato dalle immagini che non dalle parole. Credo fortemente nel potere trascendente dell’immaginazione, quindi i testi, ma anche le musiche, si muovono sempre su più livelli. Sono attratta da sempre da ciò che bolle sotto la superficie delle cose.
Rispetto ai precedenti album, qui le sonorità virano decisamente verso l’elettronica: è un nuovo corso della band o un esperimento funzionale alla specificità del tema trattato?
Ci siamo sempre sentiti molto liberi di trattare il materiale che avevamo senza doverci fossilizzare in uno stilema stilistico. C’è un trait d’union molto forte che lega tutti i nostri lavori, e non dipende dal tipo di strumentazione usata.
Non ci siamo seduti a tavolino a discuterne, è stata una naturale evoluzione. Ci sentiamo spiritualmente affini a quei musicisti e a quelle band che negli anni hanno cercato diverse forme espressive per veicolare le loro idee, penso a Blonde Redhead, PJ Harvey… non importa se utilizzi una chitarra acustica o un synth, conta quel che dici e come lo esprimi.
Amiamo molta musica e molti generi, cerchiamo da sempre di dar vita ad un suono “personale” e accogliamo come una ventata di aria pura gli stimoli nuovi che arrivano nel nostro mondo sonoro.
Da The Tale in poi sarà comunque più presente l’elettronica per un po’….
Le chitarre indie di Bloodroot, infatti, qui scompaiono sebbene tutti e tre abbiate suonato parti di chitarra, il cui suono è talvolta indecifrabile: si tratta di una precisa scelta estetica?
E’ stata una scelta molto sentita. Questo non significa che abbiamo abbandonato per sempre le chitarre. Sono state estromesse volutamente da questo lavoro perchè la magia che cercavamo non abbisognava di altro. Cerchiamo un equlibrio. Quando lo troviamo smettiamo di preoccuparci di tutto il resto.
La band è attualmente ridotta a un trio, come vi siete divisi i compiti?
La band è un trio da luglio 2013, ormai sono trascorsi quasi due anni e nonostante una fase di passaggio travagliato, siamo molto felici del nuovo equlibrio che abbiamo trovato. In realtà non c’è stata nessuna divisione dei compiti. La decisione di Gianluca di lasciare la musica e dedicarsi completamente alla serigrafia ha naturalmente accelerato un processo in corso.
Tato aveva già da un po’ iniziato ad usare macchine, synth, sequencer, batterie elettroniche, e lo stesso avevo fatto io negli ultimi tempi, lavorando molto a casa con computer e synth.
Poi lui ha definitivamente appeso al chiodo la chitarra e tutto si è trasformato in quel che si può ascoltare dalla Cover di Lioness (che è addirittura uscita poco prima di Bloodroot) in poi…
Avevamo qualcosa come 60 concerti da fare quando siamo rimasti in 3 a inizio Tour di Bloodroot e quindi la trasformazione è avvenuta direttamente sul palco! Ci ha insegnato moltissimo e non siamo mai stati così in sintonia. Non credo che nessuno di noi avesse mai preso seriamente in considerazione l’idea di cercare un altro/a musicista. Inoltre ci viene anche molto comodo il fatto che Michele sia un sound engineer.
E come si rifletterà questa cosa nei live, anche in considerazione del fatto che il vostro nuovo sound è ricco di sfumature, sebbene nascoste nella tessitura organica del concept?
Nei live siamo appunto in 3, utilizziamo strumenti acustici (batteria), elettronici, digitali, una chitarra, un Juno 60, molti synth, sequencer, synth bass, vari sample da noi creati e modificati, un po’ di rumori ambientali….
L’atmosfera di The Tale mi ha ricordato certo cinema di fantascienza, quello meno spettacolare in cui è più evidente lo sforzo di immaginare un futuro possibile, quanto conta l’aspetto “visivo” nella vostra musica? E davvero può avervi ispirato il cinema?
Conta moltissimo. Il cinema in particolare mi ha sempre dato motivazioni fortissime, certe immagini mi entusiasmano talmente tanto che spesso sono il motore per iniziare a scrivere brani nuovi.
Ultimamente sono innamorata del cinema cecoslovacco e polacco degli anni ’60/’70, un periodo in cui si sperimentava molto con l’immagine. Ad esempio ho ancora Daisies e Valerie and her week of wonders scolpiti nella testa, sto scrivendo cose nuove con certe immagini impresse nella memoria. E ringrazio gli amici che mi hanno consigliato questi gioielli.