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Verdena + Jennifer Gentle @ Casa della Musica (NA) 8-03-2015

livereport_Verdena+JG@CasadellaMusicaNA_IMG1Dopo le esibizioni in “supergruppo” del 2009 e 2012, non stupisce un cartellone con Jennifer Gentle e Verdena, malgrado le profonde differenze tra le due formazioni. I primi aprono la serata con un set che per metà viene dai primi due album della band, ristampati di fresco in unica confezione psichedelica di gusto sci-fi retrò in tiratura limitata. Se I am you are (2001) rappresentava l’allestimento del set e Funny creature lane (2002) l’ingresso in scena dei personaggi, sul palco della Casa della Musica di Napoli i due aspetti si fondono in un magma spiazzante, e come nei fumetti da una magica spirale nebulosa saltano fuori i supereroi: here we are! Il salto nel tempo comincia non appena Liviano Mos attacca a suonare la tastiera (I do dream you), con capelli arruffati e barba incolta che sembra uscire dalle viscere del Laurel Canyon dopo una jam con le Mothers of invention. Alle sue spalle la bislacca e divertente postazione di Guido Giorgi (perfetta rappresentazione di follie sonore come Nothing makes sense), che se ne sta sempre in disparte, suonando chitarra, kazoo, diamonica (suppongo contenuta in quella strana valigetta azzurra), percussioni e una tastiera su cui è poggiata una testa di bambola che fuma, nel senso che ne ha proprio una rollata tra le labbra. Alla batteria Diego Dal Bon potrebbe essere uno della Tamla-Motown con quel ciuffone afro e i baffetti ironici mentre segna con quadratura eclettica le evoluzioni stralunate dei brani (Ultraviolet Lady Opera). Al basso Francesco Candura è il più compassato, come ogni bassista che si rispetti, ma con uno stile insieme fluido e corposo; è anche l’unico a non urlare come gli altri, a volte in maniera spiazzante, nel caotico e coinvolgente rito catartico messo in scena dal combo. Infine il leader, Marco Fasolo, allegro mattatore con quel taglio da swingin’ London che ricorda i mod e Pete Townshend, strizza l’occhio a certe progressioni di accordi dei Kinks (My memories’ book), ed è altrettanto folle di un Syd Barrett (Tiny holes). Ma le improvvise e talvolta sorprendenti discese metalliche dei suoi assoli hanno una precisione graffiante, che il diamante pazzo non aveva e si adatta alla dinamicità aggressiva della Fender Jaguar quanto al fraseggio scivoloso e suadente di No mind in my mind, il momento più “orecchiabile” e pop dell’esibizione.
E allora, i nostri, che mettono in scaletta un bis come Wooly Bully di Sam the Sham & The Pharaos (1965), sono forse nati nel decennio sbagliato? Assolutamente no. Senza essere innovatori, e forse senza nemmeno volerlo, la musica dei Jennifer Gentle, su disco quanto dal vivo, pare oggi più che mai necessaria!
livereport_Verdena+JG@CasadellaMusicaNA_IMG2Il concerto degli headliners Verdena si apre con Ho una fissa, proprio come l’ultimo album, chiarendo subito con un picco di ruvida adrenalina quale sarà l’andamento dell’esibizione, che in linea di massima non si scosta di molto dalle atmosfere di Endkadenz vol. 1, riprodotto quasi integralmente con 11 brani su 13, costituendo quasi metà della generosa scaletta che ne conta ben 25. La sfida della vigilia era forse proprio riuscire a riprodurre dal vivo gli arrangiamenti complessi che caratterizzano l’ultima fatica del gruppo, che in tale ottica ha scelto di allargare la formazione con l’ingaggio di Giuseppe Chiara, capace di destreggiarsi abilmente tra chitarre e tastiere, arricchendo di coloriture e sfumature variegate il suono corposo della band. Probabilmente il trio poteva reggere comunque la resa live dei nuovi brani, ma la scelta di fondo sembra quella di un wall-of-sound che investa il pubblico riducendo al minimo lo spazio per tirare il fiato e ottenere il massimo impatto possibile senza allentare mai la tensione. Con tale propensione la serata procede tra continui scambi di strumenti con Alberto Ferrari che si alterna tra chitarre elettriche, acustiche e piano, al quale esegue gli accordi portanti di brani come Vivere di conseguenza e Scegli me (un mondo che tu non vuoi), ma vi si siedono sia Giuseppe in Nevischio che la stessa Roberta Sammarelli in Razzi arpia inferno e fiamme. Motore della formazione resta anche dal vivo Luca Ferrari che anima tutti i brani con l’energia pulsante che si sprigiona dal suo drumming impetuoso, sia nei contesti più distorti, come ad esempio Inno del perdersi dove i fill sui tom scompaginano la cadenza quadrata del saturo giro armonico fino all’ottima chiusura ironicamente prog, ma che non va troppo per il sottile anche nei momenti acustici più quieti, in cui Alberto conferisce maggiore risalto al canto, come in Trovami un modo semplice per uscirne, producendo un efficace contrasto tra morbida costruzione melodica e ritmicità spigolosa. La band non sembra cercare un dialogo col pubblico, se non attraverso l’onesta rappresentazione del proprio mondo di suoni cui siamo invitati ad assistere, ma la risposta è ugualmente entusiasta, tanto per certe ultime freschezze pop come Contro la ragione quanto per gli ormai classici successi degli esordi come Valvonauta che, introdotta da guizzanti note legate improvvisate all’elettrica da Alberto, scatena un pogo contagioso tra le urla di tutti i presenti. I tempi regolamentari si chiudono con una dilatata versione di Rilievo, che raddoppia la durata dell’album con un violento finale strumentale che percuote il pubblico per oltre un minuto assordante per poi placarsi su atmosfere mediorientali che prendono vita su un tappeto di sonar e glockenspiel elettronici con improvvisazioni fugaci di unisono voce e chitarra e passaggi tribali della batteria, lasciando infine spazio a un’esotica coda di tastiera che lentamente sfuma. Si torna sul palco per altri quattro brani da altrettanti album, ripartendo in sordina con Nuova luce, chiusa da acidi colpi sui tom e grida, ma già Luna alza la temperatura con Luca che scandisce energicamente i cambi di tempo dell’intermezzo strumentale, quando il trio si ricompatta al centro del palco nel momento più trascinante dei bis. E dopo fischi e mugugni hendrixiani nell’introduzione e nel finale di Don Calisto, scolpita nel grezzo metallo, il concerto termina con le oscure trame calanti di Funeralus, già in chiusura di Endkadenz vol. 1 e suona come un piacevole invito a non perdere il prossimo appuntamento.

Gallery fotografica di Alessio Cuccaro

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