Napoli, metà anni ’80. Ero bambino. Una sera i miei genitori vanno a sentire un chitarrista blues al Teatro Tenda. Non ne sapevo niente allora, anche se quella musica in casa si ascoltava eccome, ma l’entusiasmo visto l’indomani era contagioso ugualmente. Beh, era B.B. King.
Tempo dopo ho cominciato a consumare musicassette (che tempi), ma reperire vecchi album non era facile prima di internet. Così, era ormai il 1988, mi capitò di incontrare nuovamente il bluesman in occasione del concerto tenuto a Roma, trasmesso allora dalla Rai, The giants of rock’n’roll. Una serata di giganti, ma ben oltre il genere del titolo, che ha visto avvicendarsi sul palco James Brown, Bo Diddley, Ray Charles, Little Richards, Jerry Lee Lewis, Fats Domino e per ultimo lo stesso King, con la sua mole quasi compressa nel completo elegante e la fidata Gibson ES-355, al secolo Lucille, che doveva portare sul fianco per potersi avvicinare al microfono e cantare con quella voce roca e possente. In seguito (ripeto, era prima di internet) ho acquistato, in VHS, il film concerto di una band irlandese alla conquista e riscoperta dell’America. Naturalmente si trattava dello splendido Rattle and hum (1988). Non credo che When love comes to town sia il capolavoro di King, né degli U2, ma resta comunque indimenticabile per la disarmante umiltà con la quale il chitarrista, che (va da sé) non aveva molto da imparare da The Edge, si avvicina a Bono prima di iniziare le prove dello show chiedendogli di affidare a qualcun altro il compito di portare gli accordi poiché, afferma con candore fanciullesco, “I’m horrible with chords”. Una lezione che solo un grande come lui poteva impartire ma che rivela, implicitamente, una verità indicativa del suo approccio alla musica. Anche risalendo agli esordi alla fine degli anni ’40 e ai primi successi del decennio successivo, da Three o’ clock blues (1951) di Lowell Fulson a Every Day I Have the Blues (1955), tradizionale portato al successo da Memphis Slim, ci si accorge che B.B. King non era un prolifico autore di classici intramontabili come Willie Dixon. Era fondamentalmente un interprete e un solista, per questo la sintesi della sua arte è probabilmente rappresentata da quel Live at Regal (1965), registrato il 21 novembre del ’64 al Regal Theatre di Chicago: ingresso vietato per i nazisti dell’Illinois! Senza trucchi e senza virtuosismi funambolici King trascina il pubblico con fraseggi guizzanti dal timbro suadente, che tanta influenza hanno avuto su chitarristi quali Clapton e Green, per citare solo due nomi nel vasto fenomeno del blues revival. A quello stile King è rimasto sempre fedele e attraverso quel sound riconoscibile dalla prima nota ha continuato a suonare fino allo scorso autunno, quando le condizioni di salute hanno iniziato ad aggravarsi. La sua scomparsa rattrista, ma non bisogna piangere, perché il blues nasceva dalla sofferenza, dalla fatica nei campi, dal razzismo, dalla schiavitù, ma serviva a liberarsi dal dolore e a poter cantare, come Skip James: “I’m so glad, I’m so glad, I’m glad and glad and glad, don’t know what to do“.
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