A differenza della capitale e delle grandi città del Nord Italia ormai predestinate ai concerti più esclusivi, la centralità di Bologna resta comunque una qualità idonea per i tour stranieri di quelle band che in un modo o nell’altro (fortunatamente) ripasseranno nel Bel Paese. Gli Editors infatti hanno annunciato l’evento del 28 Novembre come unica data italiana, e così sarà certamente fino alla prossima estate quando senza dubbio Tom Smith e soci torneranno a saziare il folto ed adorante pubblico italiano. In tanti, giustamente, non hanno la pazienza di aspettare mesi e così hanno deciso di giungere da tutta la Penisola per affollare il Paladozza, sold out da diverso tempo.
L’arena bolognese sì è rivelata perfetta per questo live. La struttura è compatta con una forma circolare e ripide tribune, il parterre consente ottima visibilità anche dai punti più estremi e il suono tutto sommato regge bene (decisamente meglio della più ampia Unipol Arena che recentemente ha ospitato i Foo Fighters).
I drammatici fatti di Parigi hanno però imposto rigidi controlli all’ingresso creando rallentamenti e code chilometriche sopportate con ordine e consapevole pazienza dal pubblico intirizzito dal freddo.
Venendo al racconto del concerto, la serata inizia poco dopo le 20 con i Jonathan, band croata sconosciuta ai più. Il set dei Jonathan è perfetto in tutto e per tutto: collocabili a metà strada tra Kasabian ed Interpol, i membri della band mostrano le loro capacità con un suono efficace, energico, divertente ma anche emozionante. Una band che appare coesa, capitanata dall’inafferrabile cantante Zoran Badurina: una voce sorprendente in termini di potenza e capacità comunicativa. La band croata ha sfoderato tutti gli assi e, come poche volte accade in fase di apertura di una band ben più blasonata, ha convinto il pubblico in maniera unanime uscendo tra gli applausi scroscianti.
Dopo un breve cambio di palco, le luci si spengono, gli Editors calcano il palco del Paladozza. Dopo aver soffiato un bacio in direzione del pubblico, tra le cupissime note di No Harm (apripista anche dell’ultimo album In dream), Tom Smith emette il primo suono, le prime parole, con il suo inconfondibile timbro, capace di essere profondo, sorprendentemente acuto, magicamente caldo.
La scenografia è minimale: dietro alla band il fondale rappresenta un muro altissimo, di cemento, freddo e imponente. Tutti i componenti sono vestiti di nero, le loro figure si stagliano nell’ombra mentre il leader carismatico, volto della band, si distingue con una bianchissima camicia.
Dal precedente The Weight of your love, Sugar carica l’aria di tensione con il basso ad un volume altissimo, a pulsare nel petto. L’algiditià elettronica di Life is a fear è di una bellezza disarmante forse anche un poco sprecata in una fase di inizio live nella quale l’adrenalina del pubblico manda in tilt il cuore, unico organo con il quale occorrerebbe ascoltare attentamente questo brano. Blood, dal disco d’esordio The black room, suona grandiosa nella sua semplicità trasformando il parterre del Paladozza in un dancefloor romantico e decadente che ben si addice anche alla successiva An end as a start. Il clima cambia radicalmente: Tom Smith si siede al pianoforte, i suoni diventano minimali per poi crescere al solo scopo di innalzare e far danzare il canto e la seconda voce. Forgiveness è seducente nel suo incedere, è una danza dolente per anime erranti. Il ritorno al passato non suona mai snaturato e ben si integra alle nuove sonorità della band, più maestose e capaci di enfatizzare maggiormente il continuo alternarsi di tormentate ombre e luci pop: il susseguirsi di All Sparks, Eat Raw Meat = Blood Droll, The Racing Rats e Formaldehyde è una carica di energia pura. Se c’è un brano di In Dreams che dal vivo rende eccezionalmente meglio che su disco, questo è Salvation: così come proposto sul palco bolognese il brano si scopre nero e viscoso, come petrolio. La potenza del suono investe senza lasciare scampo, le luci intermittenti si scagliano sui volti del pubblico in estasi mentre l’interpretazione di Tom Smith, con il suo corpo sempre contorto in mille pose innaturali, unita alla granitica batteria, rendono l’esibizione veramente formidabile. In scaletta non poteva mancare anche la tanto amata Bones, così come Smokers outside the Hospital doors proposta in una toccante versione acustica per sola chitarra e voce. Una vasta gamma di colori si stagliano in Bricks and Mortar e nel brano più spiccatamente pop di tutto In Dreams, All the Kings. I brani in scaletta si susseguono senza soste. Tra un pezzo e l’altro solo diversi ringraziamenti al bel pubblico e la presentazione di tutti i componenti della band, tutti fondamentali a partire da chi sta un po’ più arretrato come Elliott Williams a tastiere, synth, chitarre e indispensabili curate seconde voci. Da The Weight of your Love non potevano essere dimenticate A Ton of Love e l’incanto di Nothing che va a scontrarsi contro le asperità di Munich.
La band si ritira tra gli applausi grati di un pubblico divertito ed appassionato, ma consapevole che il concerto non può essere finito così.
Dopo pochissimi istanti, Nicholas Willes (chitarra), Edward Lay (batteria e synth), Russel Leetch (basso), Elliot Wiliams (tastiere) e Tom Smith (voce) sono nuovamente sul palco per quelli che saranno gli ultimissimi brani della serata.
Le onde morbide create dal basso in Ocean of Night sono ben proposte ma riportate in una versione meno intensa di quanto ci si poteva aspettare offrendo comunque una piacevole e ballabile canzone pop prima del delirio elettronico di Papillon. Lunghissima, estenuante, liberatoria, la carica del brano più famoso degli Editors riesce a sorprendere e coinvolgere come fosse la prima volta anche i fan più fedeli ed accaniti. Picchi e vortici di tensione: Papillon è una travolgente corsa su un rollercoaster di emozioni ardenti pilotato dai movimenti delle sottili dita di Tom. La folle corsa si perde in un tunnel illuminato da sole fredde luci al neon, tanto claustrofobico quanto, paradossalmente magnetico ed affascinante. La chisura del concerto è affidata alla più luminosa Marching Orders. La voce di Tom Smith regna sovrana fino a che il ricco crescendo sonoro non riesce ad annullarla tra dilatazioni elettroniche, percussioni coinvolgenti, distorsioni spaziali, cori paradisiaci in una conclusione stellare seppure forse anche fin troppo estesa.
Gli Editors, se ancora ce ne fosse bisogno per sfatare dubbi, hanno dimostrato di essere una grande band capace di muoversi come poche in quel segmento tra il rock ed il pop, arrivando a giovani e meno giovani (il pubblico era davvero vario come poche volte capita). Si propongono come una band moderna, che non ha paura di utilizzare alcune basi, che non ha paura di essere mangiata dal suo indiscutibile leader, che non ha paura di essere mainstream nella salvaguardia della propria sostanza indie, che suona una musica multiforme ma coerente. Una band che era da vedere in questo scampolo di 2015, in attesa di un altro passaggio qui, da qualche parte in Italia, dove il pubblico già è pronto per riabbracciarli con lo stesso calore dispensato al Paladozza.
Gallery fotografica di Teresa Enhiak Nanni