Certe volte la musica forma legami di fedeltà. Al musicista, alla sua idea di arte, alla sua generosità che si riversa in ispirazione, composizione ed esibizione live. Certe volte un’intervista è occasione di tempo che si rigenera e non termina dentro le parentesi di un attimo, di qualche mese, di qualche anno. Tempo che non muore all’improvviso, lasciando solo fantasmi e amarezza. Tempo, tempo che alimenta una rispettosa confidenza che porta alla condivisione. Così è sempre stato con Gigi Giancursi, dai Perturbazione ad oggi, al suo nuovo progetto Linda & the Greenman, e di sicuro a tutto quello che ancora ne verrà. La mia prima intervista con Giancursi avvenne nel lontano 2005, sfruttando le potenzialità della rete. Poi arrivò una mail in cui veniva tirato in ballo Socrate. Poi mi ritrovai nella piazzetta di un paesino del Sud, Bellizzi, per un primo simpaticissimo incontro. Insomma, raccontare la musica non è per forza questione di arroganza e presunzione, di distacco e saccenza. Raccontare la musica vuole anche dire mettere a nudo le emozioni, i ricordi, i legami. Legami che le canzoni tessono, perchè svelano persone straordinarie, geniali e ribelli, gentili e trasparenti. Come lo è, appunto, Gigi Giancursi.
Abbiamo già avuto modo di incontrati, insieme a Linda, quando questa nuova avventura era ai primi atti. Come stanno le cose oggi, dopo tanti live e la collaborazione con Musicraiser?
Dopo un anno di concerti e tre inediti abbiamo sentito la necessità di fotografare la situazione di questo progetto per festeggiare questo tempo passato artisticamente insieme. Per la macchina fotografica abbiamo scelto Musicraiser, ci sembrava la cosa più immediata. La campagna è andata a buon fine e ci siamo detti: perchè fare un disco quando ne possiamo fare due? Uno interamente di inediti e l’altro con la testimonianza live di una parte di quello che avevamo suonato durante le nostre esibizioni. Ci piace, tempo per le prove permettendo, avere una rosa molto ampia di canzoni che ci consenta anche di crescere come musicisti. E’ bellissimo confrontarsi con le canzoni altrui cercando la molla per renderle proprie. In qualche caso ci si riesce, in altri è più difficile. Ma credo che si percepisca dall’esterno il modo in cui tentiamo di approcciare ogni singola canzone.
L’idea di un disco intero di inediti invece si è fatta strada proprio alla chiusura della campagna di Musicraiser. Se è una festa, anche se in ritardo (nel frattempo erano passati un anno e qualche mese), che festa sia.
Parlami di questo disco, della sua natura volutamente sincera e diretta. Mi riferisco soprattutto alla sua lavorazione…
Io credo che oggi il ruolo di un artista sia quello di fare. Sono rimasto legato non tanto a quella che viene definita scena indipendente, una connotazione sfuggente e dai centomila significati, quanto al fatto di pensare al mio ruolo di artista nell’ottica contemporanea e rispetto alle reali possibilità economiche che ho (ho anche molti altri ruoli, padre, arrivatore di fine mese, produttore artistico, organizzatore di piccoli e a volte grandi eventi per altri).
Il problema di molti oggi è quello di volere competere con le grandi band mitizzate del passato o con le classifiche contemporanne gonfiate ad arte. Quindi concentrarsi per mesi, quando non per anni, per fare uscire un prodotto. E’ sempre stato un mio cruccio quello di tenere un equilibrio tra la voglia che avevo di scrivere canzoni e quello di doverne fare uscire dieci ogni due anni perchè un disco va promosso bene, perchè deve suonare bene, perchè si fa così, ecc.
Ho scoperto con colpevole ritardo 69 love songs dei Magnetic Fields. Che bellezza. Che idea meravigliosa. Mentre tutti erano impegnati a produrre venti canzoni in quattro anni, loro ne sfornavano 69.
Se a me piace un gruppo, non vedo l’ora di sentire che cosa hanno da dire, non vedo l’ora di ascoltare delle loro nuove canzoni. Non ce la faccio ad aspettare due anni per dieci brani. Quando sono uscite tutte le out-takes di Illinois di Sufjan Stevens, ero contento. Avevo tantissima voglia di ascoltarlo. In tutte le salse. Anche se avesse cantato sul divano di casa sua e si fosse registrato con un cellulare.
Io non posso competere con le grande produzioni e devo ammettere che quasi non mi interessa.
Se ascolti Blowin’ in the wind, non è la produzione che conta. E’ la canzone. Sarebbe diventata più famosa se le chitarre avessero avuto un suono più cristallino, se la panoramizzazione stereo fosse stata fatta in un altro modo, ecc.?
Oggi nessun fonico si permetterebbe di registrare una canzone in quel modo. C’è una seconda chitarra che quasi non si sente in appoggio alla prima. Non credo sia una scelta voluta. Ma chi se ne frega. E’ Blowin’in the wind.
Ecco.
Non credo che le canzoni di Greensongs siano paragonabili. Ma ci sono. Esistono, non ho badato alla “compressione parallela in sidechain della supercazzola prematurata”. E credo che al 96% della popolazione mondiale non interessi nemmeno. E il 4% residuo si compri un disco dei Muse.
Io voglio continuare a fare la mia musica, finchè ne avrò voglia.
Questo significa essere per me indipendente. E non voglio lanciare strali contro altri che la pensano diversamente. Semplicemente ognuno faccia un po’ quello che gli pare. Io spendo meno. Ed è una necessità.
Se tu dovessi definire queste canzoni, che parole useresti?
Minimali, dirette, d’amore, acustiche, talmente semplici che paiono insolite.
Cosa vuol dire per un chitarrista decidere di mettere in piedi un progetto in cui si è così esposti in prima persona?
In fondo non mi sono mai reputato un chitarrista. In fondo la chitarra è uno strumento, appunto, per fare in modo che qualcuno possa dire qualcosa musicalmente. E’ uno strumento molto versatile e immediato. Ed è per questo che la chitarra è diventata una mia confidente. Ammetto che mi piacerebbe tantissimo suonare il pianoforte. Adoro scrivere col midi le partiture d’archi. Mi ci perderei un mese. Sto persino scoprendo il canto, a modo mio.
Se ci pensi, non mi sono esposto ancora in prima persona. In fondo il duo è Linda & the Greenman. Metto la maschera dell’Homme Vert. Maschera che mi piacerebbe togliere e magari prima o poi pubblicare canzoni a mio nome. Quello con Linda è un progetto.
Raccontami il brano più autobiografico, quello che potrebbe rappresentarti più di tutti oggi…
Sicuramente La Scommessa di Pascal. In fondo i brani in italiano scritti da me per Greensongs sono quasi tutti cantati a due voci, se ci fai caso mancano dei precisi riferimenti al genere. La voce che canta lo determina poi a posteriori.
Però ne La Scommessa di Pascal la posta in gioco era molto alta. Perchè quella canzone è per me come un’operazione a cuore aperto, così come Sister Shadow credo lo sia per Linda. Ne La Scommessa di Pascal si fa riferimento alla riflessione del filosofo francese per cui si può prendere una vita, la propria, e donarla all’infinito. In fondo, se la propria vita fosse finita e l’infinito non esistesse, si sarebbe persa soltanto una piccola porzione insignificante di universo. Pascal identifica l’infinito con Dio. La mia è una versione più atea. E’ dedicata ad un’altra persona, una persona che mi ha reso e mi rende felice anche in questi ultimi due anni piuttosto travagliati.
Come si può comprare il disco?
Lo si può ordinare su Mescal Official che ha contribuito alla campagna Musicraiser e con cui abbiamo stretto un accordo di co-produzione. Loro ci hanno stampato il disco e per noi è stata una bellissima cosa.
Per chi ti piacerebbe scrivere una canzone? Scegli una voce in cui le tue parole abiterebbero alla perfezione…
Non lo so. Per tutti, credo. Perchè una canzone diventa diversa, la stessa, a seconda di chi la canta. E’ questa la potenza incredibile di un brano, quello che mi continua a fare innamorare del mestiere che ho sviluppato.
Forse dalla persona più improbabile che possa pensare, che ne so, per Albano. No. Scusa. Ci ho ripensato. Per Celentano. Tanto immaginare non costa niente.
Tornando all’esperienza Musicraiser, ti chiedo un bilancio. È un sistema davvero alternativo? Funziona bene così o lo trovi migliorabile?
Alternativo non so. Funziona benissimo. E’ un altro strumento. Chi vuole se ne serve. Senza di esso alcune cose non sarebbero uscite, altre escono ugualmente. E’ un servizio a pagamento, come lo sono tutti i servizi. Chi si scaglia contro a priori e continua tutti i giorni a pagare Wind, Vodafone, Tre, Eni, Enel, Sky, ecc. mi fa un po’ ridere. E, a differenza dell’assicurazione per autoveivcoli, non è obbligatorio.
Sei anche in tour con i Mambassa, come sta andando? E, dimmi, una band dei sogni… (attuale, passata, italiana o straniera… insomma larga scelta) in cui sentiresti il suono della chitarra in simbiosi perfetta…
Sono contento della collaborazione coi Mambassa. Avevo partecipato al brano Melancholia contenuto nel loro ultimo disco. A marzo dell’anno scorso mi aveva chiamato Stefano Sardo, il cantante, per chiedermi se mi andava di seguirli nel tour che avrebbero fatto dopo l’estate. Io non avevo più toccato la mia chitarra elettrica e proprio in quei giorni l’avevo guardata. Così ho accettato, con un briciolo di tentennamento. Non per i Mambassa, di cui stimo profondamente la produzione, ma perchè non sapevo bene che cosa avrei fatto poi a settembre. La mia vita non è così lineare. Però, dal momento in cui ho detto sì, ho rispettato l’impegno preso. Ho suonato a Dogliani persino con la schiena a pezzi ed è stato peraltro un magnifico concerto.
Sono in una fase per cui non credo molto nei gruppi. Forse ho smesso di accettare mediazioni, e non è bello. Il mio ruolo nei Mambassa si avvicina a quello del tournista, rapporti umani a parte. In fondo loro avevano due magnifici chitarristi che hanno lasciato il gruppo e che hanno scritto gran parte della musica che i Mambassa eseguono. Il mio ruolo con loro è quello di tentare di rievocare quello che già esiste.
Quindi ti dico: non saprei in quale gruppo mi piacerebbe suonare, perchè in fondo tutto sta nel ruolo che ricopri in quel gruppo. All’interno della sala prove esiste un universo di cui si tira poi fuori un singolo pianeta e lo si consegna al pubblico.
Non conosciamo il futuro. Ma possiamo immaginarlo con le nostre aspirazioni, i nostri desideri. Cosa immagini? Cosa stai facendo, scrivendo… per farlo accadere?
Credo che per avere un desiderio occorra avere le idee chiare. Le mie sono piuttosto confuse. Ma la differenza tra me e altri è che io lo sto dicendo. Tutto è un’enorme vetrina in cui esponiamo solo la parte migliore.
A me piace la musica che ti fa venire voglia di farne, non quella che segna un distacco con gli altri. E’ il motivo per cui ho amato i Nirvana, o per cui quelli di qualche anno in più di me hanno amato il punk. E’ un mondo che volge al termine. Ma non il messaggio. Mi piace ritrovare questo messaggio nelle nuove forme in cui si incarna e cercare di lasciarne un poco anche io. Questo è il massimo di chiarezza delle idee a cui sono giunto, oltre a quella che mi piacerebbe per una cazzo di volta nella vita arrivare ad una sicurezza economica un po’ meno aleatoria.
Scegli un libro per parlare del Gigi di adesso…
Wikipedia. Non leggo più libri. Ma leggo in continuazione.
E scegli una canzone per dire di te adesso…
Spotify. Youtube. A random. Ci gira sopra di tutto. Da Emma che ascolta mia figlia ai Megadeth che le faccio ascoltare. Da Adele a Bach, da Calcutta a Fargetta. Dai Guns and Roses agli Squallor, da Toto Cutugno a David Sylvian. Sempre rispettando la quota Beatles.